L’ITALO AMERICANO E I SUOI 110 ANNI DI STORIA A SERVIZIO DELL’ITALIANITÀ– di Barbara Minafra

SAN FRANCISCO\ aise\ - “Domenico Di Salvo arrivò a Ellis Island il 5 settembre del 1907. Era partito il 23 agosto a bordo del piroscafo Koenig Albert, che solo da qualche anno era stato impiegato sulla redditizia rotta Genova-Napoli-New York. A pieno carico il veloce transatlantico costruito nei cantieri navali di Stettino, oggi in Polonia, poteva trasportare 2175 passeggeri di cui 1800 in terza classe. Nel novembre 1906, appena 8 mesi prima del suo coraggioso viaggio verso il futuro, c’era stata una protesta contro il sovraffollamento di emigranti italiani. Dieci anni dopo, diventerà una nave ospedale della Regia Marina Italiana dopo essere stata requisita in seguito all’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale”. Così scrive Barbara Minafra su “l’ItaloAmericano” storica testata ora diretta a San Francisco da Simone Schiavinato.
“Domenico Di Salvo era nato il 3 febbraio di 17 anni prima in una minuscola contrada di Pietrabbondante, paese piccolo e ordinato, dove tutti conoscono tutti, che oggi si staglia sotto un costone roccioso contro il cielo azzurro, proprio in cima a una collina immersa nel verde di dolci vallate circostanti. Di quella contrada restano meno di dieci casette a cento metri da una piazzetta fantasma dove tutto è abbandonato e tutto è crollato.
Quando una frana nel 1962 lesionò le prime case, gli abitanti si trasferirono in paese o emigrarono. Nessuno aveva più voglia di fare sacrifici, di far funzionare un mulino dove la polvere della farina rendeva faticoso respirare né di riparare, immersi nelle gelide acque invernali del fiume, gli argini che le piogge sistematicamente portavano via. Della sua casa resta solo un muro completamente mangiato dall’edera, tra alberi di ulivo, peschi e un prato rigoglioso dove in primavera crescono fiori di campo e orchidee selvatiche ma che, per chi sa cercare, nella stagione giusta è ricco di preziosi tartufi.
Domenico è partito lasciandosi dietro tutto, salutando per sempre la famiglia. Come tanti, non tornò più. Chissà quante volte gli sarà tornato in mente quel cielo invaso dalle stelle, l’aria fresca della notte piena dei profumi della terra, i campi a perdita d’occhio, gli alberi immersi nel silenzio e nel ronzio degli insetti, l’aia piena di oche, galline e capre. Chissà come deve essergli sembrata minacciosa New York, dove la confusione del porto, il frastuono della città rimbombavano tra tutte quelle incomprensibili parole in inglese, la calca sbandata degli emigranti, i controlli degli ispettori, i documenti da compilare senza saper scrivere, senza capire e senza sapere niente.
Negli anni poi tutto è decollato. Certo la fatica, tanti lavori, tante città dentro quel Paese enorme che poi ha considerato gli italiani enemy aliens. La sua è stata una tipica famiglia italoamericana: una moglie piemontese, la comunità di paesani, un figlio che parla inglese perfettamente, tre nipoti che possono andare al college.
Uno di loro, Alexander, nato vissuto e cresciuto americano è però la terza generazione. Quella che ritorna, che cerca le radici, che vuole riscoprire da dove sono partiti i nonni. E così ritorna in paese, lui che porta il nome del bisnonno lasciato in Molise in quel lontanissimo, ultimo, abbraccio sulla porta di casa, stringendo un figlio che non rivedrà mai più, nell’estate di 111 anni fa.
E ritrova i nipoti di Antonio, il fratello di Domenico. La terza, la quarta e la quinta generazione. Ritrova l’unico muro sopravvissuto della casa dei bisnonni, gli album di fotografie che mostrano volti simili a quelli che ha conosciuto in America, ricordi frammentari di vite passate, il sapore rustico delle Tacconelle, la pasta fresca fatta in casa che proprio il nonno, più di cinquant’anni prima, gli aveva preparato a mano regalandogli forse il ricordo più prezioso, domestico ed emozionante dell’Italia lasciata per sempre dietro di sè.
Alexander a Pietrabbondante ritrova la famiglia, respira felice l’aria di casa. A 5.642 miglia da casa sua.
In parallelo, sul filo degli stessi anni, corre la storia de L’Italo-Americano che quest’anno compie 110 anni. Un traguardo importante reso possibile solo dal sostegno della comunità italoamericana.
Lo fonda all’inizio del 1908 Gabriello Spini. Ha origini fiorentine e con il suo giornale vuole “informare, educare, unire” una crescente comunità italoamericana. Il nipote che lo raggiungerà dall’Italia, a 18 anni, diventerà Mr Italian Community. Cleto Baroni, che per 50 anni guiderà il giornale, ha fatto della comunità italoamericana il suo baricentro personale: frequentava la sua gente, la raccontava, se ne faceva portavoce. Il suo sforzo gli valse la medaglia di Grande Ufficiale della Repubblica italiana.
La storia del giornale è quella di milioni di italoamericani che hanno attraversato l’Atlantico carichi di sogni e di storie, di aspettative e di delusioni, di conquiste e di emarginazione. Della comunità di paesani che si fece coraggio nelle Little Italy fino a quando scomparvero nella Gentrification. È il cambiamento di Los Angeles che ha visto la sede della Italian Hall e delle società di mutuo soccorso scomparire nel Pueblo messicano e il quartiere della Chiesa Italiana finire in pasto ai dragoni di Chinatown, la vecchia colonia disperdersi in una metropoli che supera, per dimensioni, la distanza che va da una costa all’altra dell’Italia. È la storia degli equilibri difficili durante le due guerre, il fascismo, il confino degli enemy aliens, della guerra del Vietnam quando gli italiani naturalizzati partirono e morirono per difendere il loro nuovo Paese. È il racconto del grande benessere, delle nuove ondate migratorie di laureati e professionisti hi-tech e del turismo intercontinentale di massa, di internet che mette in rete le comunità italoamericane cost to coast e fa leggere l’edizione online del giornale durante le vacanze in Australia.
L’Italo-Americano ha attraversato epoche, società, rivoluzioni. Ha raccontato persone, storie e comunità. Ha cambiato formati e grafica e si è adeguato alle piattaforme social. Ha cambiato tante volte pelle ma non sostanza: continua a lavorare per la sua comunità, per difenderne l’identità e promuoverne il ricco patrimonio culturale e linguistico.
Alexander usa qua e là parole italiane, imbastisce con pazienza brevi frasi in italiano che non ha mai parlato in casa e non ha mai studiato. L’italiano che sa è quello che sta imparando oggi, a più di 60 anni, con il testo a fronte su L’Italo-Americano. In valigia, nel suo viaggio della memoria verso il passato, verso l’Italia e la famiglia a lungo immaginata, c’era una copia uscita il mese scorso. ì
È il miglior regalo che poteva farci, nel raccontarci la sua storia. Perchè dimostra quanto è importante, ancora oggi, un giornale come il nostro che vuole portare avanti quel rapporto di fiducia personale che L’Italo-Americano ha orgogliosamente istaurato con i suoi lettori e la sua comunità 110 anni fa”. (aise)