FRANCESCA MASSAROTTO E I SUOI MIGRANTI – di Nicoletta Masetto
PADOVA\ aise\ - “Ha raccolto per anni il racconto di chi ha dovuto lasciare il proprio Paese, la propria casa, i propri affetti. Ha raccontato le storie di quando, sulle navi o varcando i confini (allora come oggi «a cercar fortuna» sempre e comunque a Nord), i migranti eravamo noi. Francesca Massarotto Raouik, antropologa, giornalista e scrittrice, per anni collaboratrice del «Messaggero di sant’Antonio» e, in particolare, di questa edizione per gli italiani all’estero, scomparsa nell’ottobre di un anno fa, ha viaggiato alla ricerca degli ultimi testimoni del grande esodo che agli inizi del ’900 ha visto come protagonisti noi italiani”. A scriverne è Nicoletta Masetto nel nuovo numero del “Messaggero di Sant’Antonio”.
“Partirono in tantissimi. Storie di fame e di speranza, di sofferenza e sfruttamento fin troppo simili alle storie dei migranti di oggi. Francesca è stata in Australia, Canada, Brasile, ma anche in Svizzera e in Belgio. In quest’ultimo Paese ha raccolto le testimonianze di chi era andato a fare il minatore, convinto che avrebbe guadagnato uno stipendio dignitoso (così almeno stava scritto nei manifesti rosa che, nel secondo dopoguerra, tappezzarono in Italia interi paesi incitando a partire), ritrovandosi invece a lavorare in condizioni disumane. In Svizzera, ha dato voce a quanti, appena messo piede oltre confine, venivano «disinfestati», con gli stessi trattamenti usati in agricoltura, per il timore di malattie.
Francesca, con la sensibilità che le derivava dalla sua formazione, ha poi restituito le storie, e con esse le vite, di tante donne emigrate. Donne costrette a lasciare i figli o che li avevano per- duti durante la traversata in mare.
Come la mamma di questo racconto: «Durante il viaggio in nave la bimba mi prese la febbre, una febbre sempre più alta, la vegliavo giorno e notte, non sapevo cosa fare. Una notte la sentii gemere, sudava freddo, tremava; Francesca Massarotto e i suoi migranti cercai di scaldarla e tenermela vicino, ma all’improvviso smise di tremare. Era morta. Morta. Forse perché non c’erano medicine, forse perché il medico non c’era; non so. Forse aveva preso una febbre mortale».
«Me la strapparono dalle braccia, la fasciarono stretta stretta da capo a piedi e le legarono una grossa pietra al collo; di notte, alle due di notte, con quelle onde così nere, la calarono giù, in mare. Io urlavo, urlavo, non volevo staccarmi da lei, volevo annegare con la mia piccola; mi tennero ferma con le braccia, degli uomini credo. Io non volevo che la mia bambina così piccola finisse in quel mare così freddo, così scuro, certamente divorata dai pesci. Volevo essere sepolta con lei, mi pareva di proteggerla, difenderla, perché non la divorassero. Non volevo lasciarla sola, povera bambina, invece mi tennero indietro mentre la buttavano giù. Quel tonfo in acqua, non posso dimenticarlo».
Parole che potrebbero essere quelle di Taiwa dalla Nigeria o di Teka dall’Eritrea, fuggite a bordo di barconi «a cercar fortuna». Lei, invece, si chiama Amalia Pasin. Col marito Giovanni parte da Villafranca Padovana nel 1923 per andare in Brasile, nel Rio Grande do Sul. La sua storia è nel libro di Francesca Brasile per sempre. Donne venete in Rio Grande do Sul.
«Ho lavorato con Francesca per 34 anni – ricorda padre Luciano Segafreddo, già direttore di questa rivista –. C’era bisogno di raccontare gli italiani all’estero e lei diventò nostra collaboratrice. Il suo pregio fu di narrare l’emigrazione in positivo, di aver cercato, ascoltato, restituito l’italianità con tutti suoi valori che, in giro per il mondo, anziché perdersi, si sono invece rinsaldati». «Francesca ha sempre svolto questo lavo- ro di ricerca come una missione – conclude Piero Lazzarin, già caporedattore del “Messaggero di sant’Antonio” – con puntualità, rigore e passione. Il suo merito sta nell’aver trasmesso le memorie, altrimenti perdute, degli ultimi testimoni. Un patrimonio che, alla luce dei grandi esodi di oggi, acquista un valore inestimabile»”. (aise)