TREMILA ACCADEMICI E RICERCATORI ITALIANI IN UK SONO UN’OPPORTUNITÀ PER IL NOSTRO PAESE – di Caterina Belloni

LONDRA\ aise\ - A colloquio con Caterina Belloni del portale Londraitalia.com, l’addetto scientifico dell'Ambasciata italiana a Londra, Roberto Di Lauro, con l’approssimarsi del suo mandato traccia un bilancio della presenza italiana nel Regno Unito e parla dei tremila accademici e ricercatori italiani in UK come di una "opportunità per il nostro Paese".
""La mia speranza è quella che la Brexit salti". Roberto Di Lauro, addetto scientifico dell’Ambasciata italiana a Londra, non vede con entusiasmo il divorzio dal Vecchio Continente. "Penso che la cultura e civiltà britannica siano un grande contributo all’Europa ed è un peccato che non ne facciano più parte. – aggiunge – L’impatto degli inglesi sulle politiche comunitarie nella ricerca scientifica è sempre stato molto positivo e rivolto a premiare il merito e la qualità. Spero che, quando gli inglesi se ne andranno, non prevalgano altri tipi di considerazioni come quelle geopolitiche". Un danno per il mondo della ricerca e dell’istruzione, ma non solo.
É con questa riflessione, nata dalla sua esperienza e competenza, che Roberto Di Lauro si congeda da Londra, dopo quattro anni di servizio come addetto scientifico dell’Ambasciata d’Italia. Un incarico che ha assunto sospendendo temporaneamente l’impegno come delegato alla ricerca dell’Università Federico II di Napoli e che lo ha appassionato e soddisfatto, per le occasioni di incontro e per i risultati che ha ottenuto, come racconta in questa intervista.
D. Professor Di Lauro, come mai ha pensato di proporsi per il ruolo di addetto scientifico in Ambasciata?
R. Perché ero verso la fine della mia carriera accademica e ho pensato che sarebbe stata una buona opportunità per una nuova esperienza di lavoro, diversa dall’attività di ricerca e perché il concetto di servizio pubblico mi è sempre piaciuto molto e ho voluto metterlo in pratica.
D. Qual è lo scopo principale di un addetto scientifico in Ambasciata?
R. Uno degli obiettivi più importanti è promuovere le connessioni nel settore scientifico e tecnologico.
D. Da professore, vuole dare un voto al suo mandato?
R. Non mi piace darmi un voto, perché sono contrario all’autoreferenzialità. Diciamo però che sono soddisfatto di quello che ho fatto. Nel ruolo che ho rivestito, si fanno cose diverse a seconda dei paesi dove ci si trova. L’ambiente che ho incontrato a Londra aveva una connotazione particolare, visto che qui c’è una grande comunità tra accademici e ricercatori. In questo senso, ho curato molto il contatto tra gli italiani all’estero e la loro patria.
D. Perché si è focalizzato su questo fronte?
R. Ci sono due motivi importanti. Anzitutto perché gli italiani che sono in Gran Bretagna sono persone selezionate, dato che entrare in un ambiente competitivo come quello dell’accademia britannica è difficile. Ho pensato che fosse giusto fargli sentire che il Governo italiano non li considera un problema, ma li vede come un’opportunità per il nostro paese. Una convinzione condivisa con il Ministero degli Affari Esteri, che intende valorizzare le comunità degli italiani all’estero. Insomma ho voluto far sentire loro questo messaggio: vi guardiamo, vi sosteniamo e vogliamo valorizzarvi.
D. E la seconda ragione?
R. Il secondo aspetto è stato la valorizzazione di questa comunità in Italia. Lo scopo del mio ufficio è quello di favorire le connessioni tra Regno Unito e Italia in ambito scientifico, cosa che ho fatto. Di recente, ad esempio, con professori italiani impegnati nel settore dell’ingegneria abbiamo creato una borsa di studio per un giovane che viene dalle zone del terremoto del centro Italia di due anni fa, perché potesse studiare a Londra. Una borsa di studio per un candidato quest’anno e per un altro il prossimo anno, finanziata per metà da University College London e per l’altra metà da fondi italiani che abbiamo raccolto attraverso l’Ambasciata. A seguito di questo contatto e di una visita del presidente delle Università italiane, si è anche avviato un discorso per un master congiunto tra University College Londra e Università Federico II di Napoli in tema di ingegneria sul rischio naturale.
D. Ci sono altri risultati importanti che vanno segnalati?
R. Ad esempio abbiamo fatto inserire il Cnr in un programma di collaborazione internazionale, con la possibilità di finanziare progetti tra Italia e Regno Unito. E ci siamo mossi sul fronte dell’innovazione nel mondo del lavoro e delle aziende, cercando di favorire l’intervento di aziende italiane nel mercato inglese. In realtà, su questo compito di favorire la penetrazione di aziende italiane nel mercato inglese, insistono diverse realtà, dall’ufficio economico dell’Ambasciata alle Camere di commercio fino all’Italian Trade Agency, che prima era l’Istituto per il commercio estero. Quindi il mio ruolo è stato concentrato piuttosto su grandi progetti di ricerca o sulle aziende innovative. Ad esempio, ci sono anche aziende italiane nel consorzio internazionale dietro il progetto SKA, Square Kilometre Array, che intende creare il più grande network di radiotelescopi del mondo, con un’antenna centrale, la cui superficie equivale a un chilometro quadrato. Il quartier generale dell’iniziativa è a Londra, le antenne saranno in Australia e in Sudafrica, perché vista l’altissima sensibilità, devono essere collocate in zone prive di interferenze.
D. Niente male. C’è altro?
R. Abbiamo lavorato sul fronte della cyber security e suggerito nomi di esperti che sono italiani ma lavorano nel Regno Unito. Ormai esiste un database di quasi 3000 contatti di accademici italiani nel Regno Unito. Abbiamo nomi, cognomi, contatti per disciplina di ognuno di loro e possiamo indirizzare le richieste che arrivano dall’Italia per consulenze e aiuti direttamente sugli italiani che lavorano nel Regno Unito.
D. C’è un rammarico, per qualche progetto che non è andato a segno?
R. Il rammarico è di non essere riusciti ad esportare verso l’Italia alcune buone pratiche, che ho visto operare nel Regno Unito. La principale, forse, è che mentre in Italia siamo molto attenti ai bandi pubblici e alle gare pubbliche per il reclutamento nell’università, nel Regno Unito le università sono libere nel decidere il reclutamento del personale didattico e nella ricerca. Perché il modo in cui viene valutato è sui risultati, che vengono vagliati dal governo e portano al finanziamento degli atenei. Così saltano i concorsi pubblici, i ricorsi al Tar. L’università è libera di fare quello che vuole e opera per il meglio, perché solo così viene poi premiata. L’altra buona pratica è quella del supporto scientifico alle decisioni politiche. In Gran Bretagna esiste un sistema molto articolato. Si raccolgono le opinioni scientifiche in modo che la decisione politica si prenda sulla base dell’evidenza. In ogni ministero ci sono esperti di riferimento, in modo che in ogni decisione politica che abbia una componente tecnica vengono offerti dati solidi prima di decidere. Crescere nella cultura del parere terzo e indipendente, è un elemento che manca all’Italia.
D. A proposito di cose che non ci sono, cosa le mancherà di Londra?
R. Il modo di affrontare un dibattito e di formarsi un’opinione sulla base dei dati concreti.
D. Rispetto alla Brexit, che ora preoccupa tanti italiani residenti nel Regno Unito, ha già detto che vorrebbe che non si facesse. Ma, secondo lei, ci sono margini perché accada?
R. Ho incontrato esponenti della Camera dei Lord che dicono: "Vedrete che la Brexit non si farà". Forse non riesco a separare la mia opinione dalla speranza, ma mi auguro che o restino o si trovi un accordo in cui cambia tutto per non cambiare davvero niente". (aise)