AMBASCIATORE VIGO (VENEZUELA): “ASSISTENZA MEDICO-SANITARIA, NEL 2020 CI SARÀ UNA RIVOLUZIONE” - di Mauro Bafile

CARACAS\ aise\ - “È trascorso poco più di un semestre da quando l’Ambasciatore d’Italia in Venezuela, Placido Vigo, consegnò le credenziali al ministro Arreaza per il “placet” di rito. Da allora, la sua presenza in seno alla nostra Collettività è stata permanente. Nonostante siano trascorsi pochi mesi dal suo arrivo, ha già visitato quasi tutte le nostre comunità, anche quelle che vivono nei piccoli centri difficili da raggiungere. I giorni che precedono l’arrivo di un nuovo anno invitano alla riflessione”. Inizia così l’intervista di Mauro Bafile, direttore de “La voce d’Italia”, quotidiano italiano a Caracas, all'Ambasciatore d'Italia in Venezuela, Placido Vigo.
D. “Dopo questi pochi mesi trascorsi in Venezuela, guardandosi indietro, qual è il suo bilancio? Che opinione si è fatto della nostra Collettività? Cosa le è stato chiesto con più insistenza durante gli incontri sostenuti con le nostre comunità, soprattutto quelle più lontane dai grandi centri?”
R. “Ho sempre lavorato così. Sono sempre andato in giro per conoscere i nostri connazionali. Credo che non si possa stare dietro a una scrivania e pensare di sapere tutto. Gli incontri sono sempre stati molto emotivi – aggiunge -. Mi sono state fatte le classiche domande; le stesse che farei io stando all’estero. E cioè, in che modo lo Stato mi può aiutare”.
D. “Spiega che tra le priorità fondamentali, riscontrate nel corso delle sue visite, c’è quella dell’assistenza medico-sanitaria, nell’ambito della quale, ha assicurato, “ci sarà una rivoluzione nel 2020”.
R. “L’Ospedale Italiano – prosegue – è un progetto che stiamo cercando di realizzare; un progetto – sottolinea – che dovrà essere gestito dalla nostra comunità. Prossimamente faremo una riunione con l’associazionismo. A fine gennaio convocheremo una mega-riunione per permettere a tutti di sottoscrivere, qualora lo desiderassero, delle quote associative. È prevista una missione del Direttore degli Affari Internazionali dell’Istituto Europeo di Oncologia. Spero che questa possa coincidere con quella del Presidente della Croce Rossa Internazionale. Poi sarà necessario lanciare un’iniziativa molto complessa, perché gestire un Ospedale non è come dirigere una associazione. Sarà necessario assumere personale. Abbiamo già un gruppo di 25 medici che sono disposti ad operare nell’Ospedale. Ma c’è ancora molto da fare”.
Sottolinea che a Buenos Aires l’Ospedale italiano fu creato prima dell’Unità d’Italia. Si augura, quindi, “che gli italiani qui siano altrettanto intraprendenti””.
D. “Sono stati bravi nel costruire i 28 Centri Italo Venezuelani e Case d’Italia che sono dei gioielli, con piscine, campi da calcio, campi da tennis – afferma -. Manca un Ospedale”.
R. “È vero, la nostra comunità è riuscita a costruire dei circoli, delle Case d’Italia che oggi tanti ci invidiano, in America Latina, negli Stati Uniti e in Europa. Ma lo è anche che, quando furono costruiti, il Venezuela era un paese in pieno sviluppo economico. Era un’isola di libertà, esempio di democrazia e di progresso. Era un porto sicuro per chi fuggiva dalle dittature che proliferavano un po’ ovunque in America Latina, e la “terra promessa” per chi emigrava in cerca di una migliore qualità di vita e di un futuro per i figli. Oggi ci si chiede con amarezza come sia stato possibile distruggere quanto era stato costruito con tanti sacrifici; come si sia arrivati ad una crisi così devastante come quella odierna”.
D. “Quei centri d’italianità, con campi da calcio e da tennis, piscine e quant’altro sono il frutto del benessere che caratterizzava il Venezuela, considerato allora la Svizzera dell’America Latina – facciamo notare anche se siamo certi che l’Ambasciatore Vigo ne è ben consapevole -. Non si sentiva il bisogno di un Ospedale Italiano perché ogni qualvolta un connazionale era in difficoltà, trovava una intera comunità pronta ad aiutare, ad esprimere la propria solidarietà con gesti concreti. I tempi, purtroppo, sono cambiati. Il Venezuela vive una crisi economica alla quale la nostra Comunità non è estranea”.
R. “Certo. Per questo io ho detto più volte che se andassi in Svizzera o se emigrassi in Germania non mi preoccuperei di un Ospedale. Negli anni 60, 70, nella Venezuela Saudita, c’era di tutto. Oggi sono cambiati i termini di riferimento. Quindi dobbiamo cercare di assistere i connazionali con una struttura nostra, che possa essere impiegata per interventi immediati. Dobbiamo evitare che qualche pratica burocratica possa bloccarci, provocando, nei casi più gravi, la morte di qualche italiano. Non so se rendo il concetto. E poi è un’iniziativa che darebbe nuova linfa; nuova forma a una comunità che lo merita, perché è veramente italiana. Qui anche i figli degli italiani sono italiani. Questa è una realtà molto più moderna rispetto a quelle che ho conosciuto altrove”.
D. “È una emigrazione recente. È una emigrazione del dopoguerra quindi con legami ancora molto forti con l’Italia. In passato la preoccupazione delle comunità era quella di avere un luogo nel quale riunirsi, incontrarsi, conservare le tradizionali. Colpisce la velocità con la quale lei ha realizzato un progetto del quale si parlava da anni, ma che nessuno era riuscito a tradurre in realtà”.
R. “Non l’ho ancora realizzato. Abbiamo lanciato una idea. Abbiamo stilato un accordo con l’Ospedale San Juan de Díos affinché metta a nostra disposizione due piani. E abbiamo anche l’ok dell’Istituto Europeo di Oncologia. Come le ho detto, faremo una mega riunione. Poi, costituiremo una fondazione. Abbiamo già studiato lo statuto. Quello dell’Ospedale Italiano di Buenos Aires, con cui si collegherà l’Ospedale di Caracas, ci è servito da guida. Ma dovranno essere gli italiani a portarlo avanti, i rappresentanti delle nostre associazioni… qualcuno dovrà assumere la responsabilità della presidenza, sarà necessario un tesoriere ecc”.
D. “In altre parole, vuole trasferire alla collettività la gestione e la responsabilità della struttura ospedaliera…”
R. “Chiaro… così dev’essere”.
D. “Ha parlato già con esponenti della comunità?”
R. “Abbiamo realizzato delle riunioni. Ho invitato il presidente del Centro Italiano-Venezuelano di Caracas, i rappresentanti del Cgie e dei Comites. Ne ho parlato nell’ambito della riunione del Sistema Paese. Ma la vera grande riunione la faremo a fine gennaio quando ci saranno il presidente della Croce Rossa Internazionale e il rappresentante dell’Istituto Europeo di Oncologia”.
D. “Sostiene che l’attività dell’Ospedale Italiano, in parte, potrà essere finanziata indirettamente e direttamente.
R. “Indirettamente con il pagamento delle quote dei nostri assistiti. Se diamo un aiuto economico ai connazionali che hanno bisogno di assistenza medica, quelli ovviamente andranno all’Ospedale. E direttamente attraverso un contributo. Quando l’Ospedale avrà il bilancio in ordine, secondo i criteri della pubblica amministrazione e quelli richiesti dal nostro Ministero, si potranno chiedere dei finanziamenti. Ne diamo ai nostri Ospedali nel mondo. Lo riceve l’Ospedale Italiano di Buenos Aires. Certo oggi è una somma infinitesimale rispetto al suo mega bilancio. Ci consente, però, di dire la nostra; di verificare che sia una associazione senza fini di lucro. Alla fine, di questo si tratta: costituire una associazione senza fini di lucro che sia in grado di garantire assistenza ai nostri connazionali. Presidente Onorario sarà il nostro Console Generale pro tempore. È una attività che dobbiamo fare insieme. Dobbiamo restituire una speranza ai connazionali, dobbiamo dare loro animo. Dobbiamo cercare di spiegare che la fiducia è il miglior antidoto per qualsiasi crisi. Dobbiamo scuoterli per promuovere un’azione e un’attività che li renderà orgogliosi: avere un’Ospedale. Questo è uno dei tanti nostri impegni. È un obiettivo che vogliamo raggiungere”.
Insomma, ravvivare nella nostra Comunità l’ottimismo che l’ha sempre caratterizzata. Una disposizione psicologica che, in passato, l’ha portata a non abbandonarsi allo sconforto. Non solo. Gli ha permesso di creare i tanti centri sociali italo-venezuelani sparsi in tutto il Paese, conquistare i vertici delle organizzazioni di categoria e, quel che è più importante, di imporsi con passione nel mondo delle arti, della cultura, della ricerca”.
D. “Lei ha considerato opportuno convocare le istituzioni della Collettività ad una riunione del “Sistema Italia”. Perché questa iniziativa?”
R. “C’è una direttiva del 2008 che dice che i capi missione all’estero devono coordinare le attività di tutte le istituzioni italiane che operano all’estero. Pochi, però, esercitano questa prerogativa. Io credo invece che se le imprese e le istituzioni che operano in un Paese vedono un’Ambasciata che è a loro disposizione, che ha il desiderio di promuovere una sinergia tra tutti gli attori, il risultato che si ottiene è positivo per tutti. Torno a ripetere, potrei restare tranquillamente dietro una scrivania. Potrei non avere bisogno di niente e di nessuno. Ma, così facendo, verrei meno al mio dovere: quello di fare in modo che tutte le imprese, tutte le istituzioni camminino verso obiettivi comuni. Se io vendo bicchieri di plastica e so che c’è un altro italiano che ha un bar che usa bicchieri di plastica, è ovvio che posso fare sinergia. Loro li usano, io li vendo”.
D. “Ritiene che sapere che “l’ambasciata organizza eventi culturali a fini sociali per dare un aiuto economico ai nostri connazionali” potrebbe persuadere anche i più reticenti a partecipare”.
R. Qualcuno potrebbe pensare: “quasi, quasi mi lavo la coscienza, contribuisco con 100, 500 o mille dollari. Così, so che non solo ho sponsorizzato un evento ma ho dato da mangiare a qualcuno”. Anche questo aiuta a stare più insieme, a conoscersi. È un po’ il motivo per cui ho sempre promosso queste iniziative nei Paesi in cui ho lavorato. Noi siamo soltanto uno strumento nelle vostre mani; uno strumento che deve funzionare al 100 per cento tutti i giorni”.
D. “Qual è stata la reazione delle nostre istituzioni? Lei come l’ha percepita?”.
R. “Molto positiva. Certamente le persone non erano abituate a questo tipo d’incontri. Ne faremo un altro a febbraio. Con più persone e con tavoli di lavoro. I giovani saranno invitati a partecipare”.
D. “La “Voce” lo ha sempre sostenuto e continua a sostenerlo. I figli d’italiani, in Venezuela, sono profondamente italiani. Sentirlo dire anche dall’Ambasciatore Vigo ci infonde fiducia. La nostra emigrazione è assai recente. È quella dell’immediato dopoguerra. È una emigrazione che, grazie allo sviluppo del Paese e al benessere economico oggi venuto a meno, ha potuto conservare uno stretto legame con la Madrepatria. I figli conoscono l’Italia forse anche meglio dei coetanei in Italia…”
R. Allora, una cosa è il signor Oscar González Gutiérrez che ha il passaporto italiano; un’altra lo è il figlio del signor Rossi. Non si può dire che quest’ultimo non sia italiano. È venezuelano per la legge locale – precisa -. E per noi? Che facciamo, non consideriamo italiano un figlio d’italiani nato all’estero? I miei figli sono nati in Sicilia ma potevano nascere a Tripoli. E allora? Sarebbero forse… libici?”
D. “È un concetto che noi abbiamo sempre difeso, ma che spesso la politica italiana non condivide o non capisce… forse presa dai problemi più stringenti della sua quotidianità”.
R. “Dobbiamo fare in modo che questi figli d’Italiani, continuino ad essere italiani e che continuino ad esserlo anche i nipoti. Io sono sempre dell’avviso che dove c’è un italiano, c’è anche una bandiera italiana. Se riusciamo ad unire questa forza, saremo più forti come collettività. Se la comunità italiana è più unita, io posso dire che ho 150mila, 300mila italiani. Ben diverso sarebbe dire che ho una comunità di 4mila persone. In questo caso, il numero fa sostanza. Certo, è necessario vincere la preoccupazione e soprattutto la diffidenza. Bisogna superare questo atteggiamento di delusione e di disaffezione. E bisogna convincere le persone a credere. Allora, tutti parteciperanno. Non so se è chiaro. Questo, però, è un lavoro che richiede tempo, amore”.
D. “È un progetto a lungo termine. Lei ha parlato anche di una nuova sede per tutte le istituzioni. È un progetto che andrà in porto il prossimo anno… Tra qualche mese…”
R. “In questo momento, come a Buenos Aires durante la crisi del 2001, c’è la possibilità di fare un investimento immobiliare a buon prezzo, a un costo nettamente inferiore a quello di mercato – spiega -. Noi abbiamo due sedi di nostra proprietà. Sono la residenza e la Cancelleria diplomatica. Ne abbiamo poi altre in affitto che costano moltissimo al Ministero. C’è poi un problema di sicurezza. Se riusciamo ad avere tutti gli uffici in un unico edificio, possiamo garantire spazi più ampi ai nostri connazionali che oggi attendono in strada esposti alle intemperie e col pericolo di essere derubati. Possiamo offrire una grande sala per le riunioni al Comites e uffici alla nostra Camera di Commercio. Possiamo garantire una maggiore efficienza e funzionalità in caso di emergenza. Per ora – ci tiene a metterlo in risalto – è solo un progetto. Siamo nella fase burocratica. Ho inviato la proposta, dopo aver analizzato oltre venti ipotesi analoghe, su quella che ritengo la soluzione migliore, sulla base della mia esperienza, dopo aver acquistato già tre sedi. L’Amministrazione farà la sua valutazione tecnica. Mi auguro che possa essere considerato opportuno avviare una missione ispettiva per la verifica della sede, il controllo del prezzo e poi il contratto d’acquisto. Bisognerà poi realizzare i lavori di adattamento interno e poi il trasloco degli uffici. È una operazione difficile. Credo che se la riusciamo a portare a buon termine, chi entrerà in quell’edificio si sentirà come a casa: in Italia. Sarà un luogo decoroso, pulito, ampio, con i servizi di ultima generazione. Ripeto, io potrei restare in ufficio senza fare molto. Ma preferisco lavorare in questo modo perché mi stanno a cuore i connazionali. Se non fosse così sarei rimasto in Italia”.
D. “E starebbe senz’altro più tranquillo…”.
R. “Ma non mi sentirei felice, soddisfatto. Credo che il nostro dovere sia lavorare le 24 ore del giorno…”
D. Non è nostra intenzione entrare nell’ambito politico ma non possiamo esimerci dal chiederle come si è svolta la trattativa diplomatica che ha portato alla consegna dei salvacondotti per i deputati Mariela Magallanes e Americo De Grazia, “ospiti” in Ambasciata dallo scorso maggio. Diamo atto dell’eccellente lavoro fatto dal presidente Pier Ferdinando Casini. Grazie alla sua esperienza, alla sua finezza diplomatica e alla sua discrezione, è riuscito a convincere il Governo Maduro affinché permettesse a Di Grazia e Magallanes di lasciare il Paese. Ma siamo convinti che senza il lavoro certosino della nostra diplomazia, capace di rimuovere gli ostacoli, i due deputati sarebbero ancora “ospiti” della nostra Ambasciata”.
R. Si è trattato di un lavoro coordinato dalla Farnesina e svolto in perfetta sinergia – assicura -. Il presidente Casini avrebbe potuto sventolare le proprie idee, che ha ribadito in numerose occasioni in Parlamento, oppure la bandiera italiana. Ha preferito quest’ultima. Abbiamo fatto un giro a 360 gradi di riunioni con l’Opposizione, i cui leader sono stati i primi ad essere incontrati. Avevamo avviato, nelle settimane precedenti, una serie di consultazioni per verificare la fattibilità dell’iniziativa. C’è stata un’intesa comune da parte di tutti gli attori, incluso quelli dell’Opposizione. Ci sono stati garantiti la massima serietà e la discrezione più totale. Il presidente Casini, che era in permanente contatto con il ministro Di Maio e i vertici della Farnesina, ha portato a casa questo risultato. Penso che sia stata un’operazione positiva per permettere a due parlamentari di tornare in libertà anche se fuori dal Paese. Adesso abbiamo in campo altre iniziative, a scopo umanitario. Speriamo di riuscire a seguire con impegno queste fasi delicate. Sono molto contento di aver potuto collaborare, come ho sempre fatto, nell’interesse del Paese”. (aise)