L’ITALIA CHE NON SENTE I SUOI EMIGRANTI. E PERDE UN PUNTO DI PIL – di Beppe Severgnini
MILANO\ aise\ - “Quando a Pechino mi hanno consegnato la tessera di socio onorario e una felpa azzurra con la scritta Agic — Associazione Giovani Italiani in Cina, mi sono quasi commosso. Una volta ero una specie di fratello maggiore, interessato alle loro avventure; ora ho l’età di un papà, preoccupato per le loro prospettive. Cinquecentomila italiani hanno lasciato l’Italia negli ultimi dieci anni; metà di questi sono giovani sotto i 34 anni. Una migrazione costata al Paese 16 miliardi di euro, più di un punto di Prodotto interno lordo. Numeri impressionanti, se fossimo ancora capaci di lasciarci impressionare. Ma abbiamo perso questa dote. I numeri scivolano tra gli urli della politica e le sorprese della cronaca quotidiana: questi nostri connazionali lontani sono diventate figure sfocate”. Ad una settimana dalla presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, Beppe Severgnini riflette sulla ondata migratoria di giovani italiani dalle pagine online del Corriere della sera, dove da anni tiene il blog “Italians”.
“Li ho conosciuti bene, ne ho scritto molto, ne ho incontrati moltissimi: almeno diecimila tra il 1999 e il 2010, nella stagione degli appuntamenti in giro per il mondo, legati al blog/forum Italians del Corriere. 104 occasioni, ogni volta una pizza e una serata insieme, da Shanghai a Buenos Aires, da Chicago a Melbourne, da Mosca a Lisbona: meet-up prima dei meet-up, per conoscersi. Ho incrociato tanti altri Italians da allora, in diversi continenti.
Due o trecento anche negli ultimi dieci giorni, in Cina: Pechino, Guangzhou (Canton), Shenzhen, Hong Kong. L’occasione del viaggio era la XIX Settimana della lingua italiana. Ma in ogni città abbiamo fatto in modo di trovarci: gli italiani della nuova emigrazione e un giornalista meno nuovo, che li ha sempre ritenuti importanti.
Perché vanno via, tanti giovani e meno giovani italiani? Ci sono tanti Marco Polo che esplorano, per fortuna. Ma ci sono tanti Montecristo che scappano da pratiche inaccettabili o faticose (retribuzioni inadeguate, meccanismi aziendali arrugginiti, professioni invecchiate male, pratiche opache nelle amministrazioni e nelle università) e da condizioni oggettivamente difficili (una per tutte: l’Alta velocità termina a Salerno, e con essa la possibilità di spostarsi facilmente per l’Italia). Scriveva giorni fa Corriere Economia, riportando un dato dal 9° Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa: “L’Italia è il Paese con il tasso di occupazione più basso nell’eurozona per la fascia dei 25-29enni. Solo il 54% ha un lavoro, contro il 75% della media europea”.
Ogni grande questione nazionale, se non viene risolta, finisce per diventare un rumore di fondo. Sta accadendo con la nostra nuova migrazione. Sia chiaro: non è sbagliato — anzi, è opportuno — che chi vuole esplorare professionalmente il mondo possa farlo, soprattutto quando si tratta di una scelta e non di una costrizione. È sbagliato, invece, che questa nuova modalità di vita e di lavoro venga tanto poco considerata nella narrazione nazionale. Chi lascia l’Italia se ne accorge. Come gli italiani in Argentina di una volta, nella canzone di Ivano Fossati, anche gli italiani nel mondo di oggi domandano, da lontano: “Ecco ci siamo. Ci sentite da lì?”.
Dall’Italia rispondono in pochi. Rispondono alcune università, quelle che hanno capito di doversi aprire all’estero (la Bocconi e i Politecnici di Milano e Torino, in Cina, sono attivi e noti). Rispondono tante aziende, che nell’export e nelle attività internazionali vedono possibilità di sviluppo (ho visitato STMicroelectronics a Shenzhen, ho incrociato rappresentanti di Fincantieri a Pechino, di Luxottica a Guangzhou, di Max Mara e della Juventus a Hong Kong, di piccole e medie imprese dovunque). Risponde, a onor del vero, il ministero degli Esteri: una nuova generazione di diplomatici ha compreso che la forza dell’Italia sono gli italiani. Con le nostre gambe hanno camminato le idee che hanno sfondato nel mondo (la cucina, la moda, la musica, l’architettura, la tecnologia); con le nostre facce, sorridenti nonostante tutto, le abbiamo presentate a ogni latitudine.
Chi non risponde, allora? L’Italia, tutti noi, che di questa comunità diffusa parliamo poco. E, quando lo facciamo, diamo l’impressione di raccontare una élite distante: mentre gli Italians vengono da ogni regione, da ogni professione e da ogni condizione sociale ed economica. Se non vogliamo occuparci di loro per stima o per affetto, facciamolo per interesse: si tratta, ripetiamolo, di una risorsa formidabile, di cui non tutti i Paesi dispongono. Le amarezze e i dubbi sull’Italia che si percepiscono all’estero sono, in fondo, prove d’amore: non ci s’arrabbia con una patria di cui non importa più niente.
Le furibonde discussioni degli ultimi anni — dal tramonto governativo di Berlusconi all’ascesa della Lega di Salvini, passando per l’ottovolante del Movimento 5 Stelle — ci hanno convinto che conta ormai solo la politica, e non è vero. Contano anche le prospettive di due nuove generazioni, cui non sembriamo, come collettività, molto interessati: ogni proposta e ogni spesa pubblica puntano al consenso immediato. Queste cose si percepiscono, anche dalla Cina, dagli Usa o dalla Germania.
Gli Italians restano italiani, e sono perspicaci”. (aise)