RICORDATE LA CANZONE DI GABER? SUL TAGLIO DEI PARLAMENTARI ALL’ESTERO IL PD SBAGLIA – di Francesca La Marca

NEW YORK\ aise\ - “Nelle ore in cui la Camera procedeva alla quarta lettura della legge di riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari ero impegnata nella mia ripartizione in incontri programmati da tempo. Se fossi stata in aula, comunque, non avrei espresso un voto favorevole. Lo dico per chiarezza e lealtà verso gli elettori, anche se non è mai facile ammettere che in situazioni di tanta delicatezza, quali sono una riforma della Costituzione e una profonda ristrutturazione del Parlamento, asse portante dell’intero sistema democratico, si possa essere indotti a differenziarsi dal proprio gruppo di appartenenza”. A scrivere è Francesca La Marca, deputata Pd eletta in Centro e Nord America, che affida le sue riflessioni alle pagine de “La voce di New York”, quotidiano online diretto da Stefano Vaccara.
“Altri, che condividevano il mio stesso dissenso, hanno preferito eclissarsi senza spiegarne le ragioni. No, io non sono fatta così. Se ci sono responsabilità da assumersi, è bene farlo con trasparenza e aprirsi alla replica di coloro che ci hanno affidato il mandato di rappresentarli.
Avrei espresso, dicevo, un voto diverso da quello dato dal Pd, che è e resta il mio gruppo di appartenenza anche dopo la separazione dei colleghi che hanno seguito Renzi nella nuova formazione politica. Non perché non mi sia compenetrata nelle ragioni che hanno indotto il PD a votare questa volta a favore, dopo le tensioni e i contrasti delle precedenti letture della riforma. Per il PD ha pesato certamente l’impegno, sottoscritto all’atto della formazione della nuova maggioranza, di compiere l’ultimo passo della riforma, il quarto, per altro decisivo per la sopravvivenza del nuovo governo.
Il Partito Democratico in realtà aveva sempre detto che un taglio lineare, non accompagnato da garanzie sulla riorganizzazione del lavoro delle due Camere, da una legge elettorale capace di assicurare un’ampia rappresentatività delle posizioni politiche e culturali e da una diversa mappatura dei collegi elettorali, per metterli in grado di tutelare la rappresentatività dei territori, era sbagliato e poteva diventare addirittura un fattore di indebolimento del nostro sistema democratico.
Una volta ottenute queste assicurazioni nell’ambito della maggioranza, capisco come il PD abbia potuto fare una scelta di responsabilità, in linea con la posizione di salvare la legislatura e di consolidare la svolta politica che si è determinata con la nascita del nuovo governo. Queste assicurazioni, tuttavia, se sono concludenti per le dinamiche istituzionali e politiche interne, non sono sufficienti per superare il grave trauma che il provvedimento produce sulla rappresentanza degli italiani all’estero.
I termini della questione sono chiari e noti, e soprattutto inequivocabili. Fin dal suo nascere, alla circoscrizione Estero è stato assegnato un numero di eletti inferiore a quello che sarebbe stato se si fosse seguito lo stesso rapporto di rappresentanza tra eletto ed elettori esistente in Italia. In sostanza, si era partiti da una proposta di trenta per attestarsi alla fine, dopo un faticoso compromesso, a diciotto. Il timore di una ricaduta, a quel tempo di segno politicamente indecifrabile, sulla cronicamente instabile situazione italiana aveva frenato un po’ tutti. E poi la diffidenza per quel misterioso soggetto che era l’italiano all’estero aveva indotto i più alla cautela.
Da allora, la base elettorale degli iscritti all’AIRE è cresciuta di circa il 60% e gli italiani all’estero sono diventati circa 6 milioni. Ebbene, anziché cogliere l’occasione per liberare finalmente il misterioso e inquietante animale dal recinto dove era stato rinchiuso e riequilibrare il diritto di cittadinanza degli italiani, di tutti gli italiani, ovunque risiedano, si è addirittura peggiorata la situazione. Tant’è che a seguito della riforma per eleggere un deputato in Italia ci vorranno poco più di 150.000 cittadini elettori, mentre per eleggerlo all’estero ce ne vorranno 688.000; per eleggere un senatore in Italia ci vorranno 302.000 elettori, all’estero ce ne vorranno 1.375.000.
No, questo non si può accettare. Non perché diminuiscano le caselle da riempire e gli eletti hanno modo di preoccuparsene. Queste sono volgarità che vorrei lasciare per strada, alle quali non mi va di rispondere. Ma perché viene messo in discussione uno dei cardini della nostra democrazia – la parità tra i cittadini, ovunque risiedano – e se una riforma della Costituzione, sia pure per un aspetto specifico, contraddice lo spirito della Costituzione, chi sente il dovere di rispettare il giuramento che ha prestato su di essa non può che rifiutarsi di avallare una tale deriva.
Ma vi sono due altri motivi non meno pesanti che spingono verso la stessa conclusione.
La democrazia è partecipazione, diceva Gaber cantando della libertà. Stando alla situazione di casa nostra, qualcuno che si è girato dall’altra parte di fronte alle nostre proteste mi sa dire, ad esempio, come si possa realizzare concretamente un rapporto di partecipazione in una ripartizione come quella del Nord e Centro America con un solo deputato e un solo senatore? Si rischia che diventino portatori di simboli più che di istanze democratiche e di problemi da risolvere.
E poi, in un momento in cui l’Italia con la stagnazione in cui è impantanata ha un disperato bisogno di proiettarsi nella sfera globale, a chi conviene dare un segnale negativo, di sottovalutazione, proprio ai soggetti che compongono la rete di maggiore riferimento e sostegno internazionale che il Paese ha la fortuna di avere, sei milioni di cittadini, senza contare i sessanta milioni di italodiscendenti, insediati nei quattro angoli del mondo? Ciò che più dispiace – e lo dico da italiana, prima ancora che da italiana all’estero – è la mancanza di pensieri lunghi sui veri interessi del Paese, il limite di lungimiranza.
Ora, comunque, non è il caso di fermarsi a piangere sul latte versato.
È necessario reagire, approfittando anche del fatto che una forza che si è dimostrata storicamente sempre molto vicina agli italiani all’estero, è tornata al Governo. Si è colpita la rappresentanza? Ebbene, mettiamo mano alla Commissione bicamerale sugli italiani nel mondo in modo da creare nel cuore del Parlamento uno strumento autorevole di analisi, proposta e pressione sulle scelte dei governi.
Restituiamo ai COMITES e al CGIE i fondi che noi gli avevamo assicurato e che il precedente governo gli ha tolto. Dopo lo spostamento degli interventi sull’internazionalizzazione dal Ministero dello sviluppo economico a quello degli esteri pretendiamo di sapere quale rafforzamento delle politiche culturali dovrà realizzarsi affinché la promozione integrata del Sistema Paese non cammini su una gamba e mezza e non diventi un mero, anche se gradevole, slogan. Prolunghiamo il Fondo per la lingua e la cultura all’estero, in scadenza nel 2020, per non fare precipitosamente a ritroso il cammino in avanti che abbiamo fatto in questi anni.
Insomma, il colpo è duro, ma gli italiani all’estero non moriranno di rappresentanza. Non perché siano disinteressati alla partecipazione alla vita italiana, ma perché essi sono un obiettivo valore aggiunto e un vero sostegno per l’Italia. E alla lunga, pur in un terreno accidentato, le verità finiscono sempre per trovare la loro strada”. (aise)