Italiani in Svizzera: Integrazione e identità – di Giovanni Longu

BERNA\ aise\ - Il periodo della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera che si sta esaminando (1970-1990) è stato fortemente caratterizzato, fra l’altro, da un’ampia e approfondita discussione sull’integrazione.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta appariva chiara la tendenza alla stabilizzazione degli immigrati italiani, ma erano molte le perplessità su ciò ch’essa poteva comportare in termini di identità personale, nazionalità, cultura, come pure nei rapporti con l’Italia, ma anche con gli svizzeri. Le domande erano tante, le risposte poche e incerte. Dipesero anche da questa incertezza e talvolta paura le difficoltà e la lunghezza del processo d’integrazione della seconda generazione.
Esigenze di chiarezza
Oggi la nozione d’«integrazione» è abbastanza chiara e probabilmente nessuno ha paura di essere «integrato». Fino a quarant’anni era predominante nell’uso comune il termine «assimilazione» rispetto a quello usato oggi d’«integrazione» e poteva fare paura. Sembrava infatti che la Svizzera pretendesse dagli stranieri che intendevano stabilizzarsi e magari naturalizzarsi una rinuncia al proprio passato, alla propria cultura, alle proprie tradizioni e un assorbimento totale della lingua, della cultura, degli usi locali. Un processo che appariva a molti immigrati italiani giustamente inaccettabile.
La richiesta di entrare a far parte della nuova società non poteva esigere un’assimilazione totale delle sue caratteristiche dominanti e la dimenticanza fino alla negazione delle proprie abitudini, del proprio modo di pensare, della propria lingua e cultura d’origine, lo sradicamento completo. Forse nessuno ha mai pensato seriamente di poter chiedere agli stranieri di rinunciare o addirittura negare le proprie origini, ma sicuramente erano moltissimi gli stranieri che temevano conseguenze del genere e per questo si ponevano in una posizione preventiva di rifiuto.
Per rendere accettabile e persino conveniente l’integrazione specialmente delle giovani generazioni di stranieri sono stati necessari decenni di discussioni, studi, modifiche legislative, azioni mirate di sensibilizzazione tra gli stranieri e nella società civile. Del resto, le discussioni non sono terminate e gli aggiustamenti del concetto d’integrazione sono costanti. Il motivo è semplice: l’integrazione è un processo complesso che varia nel tempo e nello spazio perché variano i protagonisti, non solo gli stranieri ma anche la società in cui sono chiamati a inserirsi.
Non dovrebbe pertanto suscitare meraviglia che in Svizzera si discuta d’integrazione, inizialmente nella forma primitiva dell’assimilazione, fin dall’inizio del secolo scorso, ossia da quando cominciò a porsi in maniera seria il problema del rapporto degli svizzeri con la massa crescente d’immigrati. Qualche considerazione al riguardo può aiutare a comprendere meglio le difficoltà oggettive che molti italiani hanno dovuto superare prima di potersi considerare integrati, senza sentirsi costretti a rinunce inaccettabili.
Considerazioni sull’integrazione
La prima considerazione riguarda il concetto stesso di integrazione. Sono occorsi decenni di studi e discussioni per giungere al primo «abbozzo per un concetto d’integrazione», elaborato dalla Commissione federale degli stranieri (CFS) nel 1996 nel contesto della revisione della legge federale sull’asilo e gli stranieri. Solo un decennio dopo è stato possibile leggere in testi normativi che «l’integrazione mira alla convivenza della popolazione residente indigena e di quella straniera, sulla base dei valori sanciti dalla Costituzione federale, nonché sulla base del rispetto reciproco e della tolleranza, […] è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società,[…] presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».
La seconda considerazione riguarda gli stranieri. Non erano sempre gli stessi i soggetti considerati, anzi erano sempre diversi, perché gli stranieri sono giunti (e continuano a venire) in Svizzera a ondate successive, dapprima dai Paesi vicini (Germania, Francia, Austria, Italia), poi anche da Paesi più lontani (Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, ecc.). Inoltre erano varie non solo le motivazioni che spingevano ad emigrare in Svizzera, ma anche le propensioni all’integrazione. Per esempio, per gli italiani questa disposizione è sempre stata debole non solo per la vicinanza all’Italia, ma anche per ragioni storiche, linguistiche, culturali ed economiche.
La terza considerazione riguarda gli svizzeri. Spesso li si considera come appartenenti a un popolo omogeneo, dimenticando che costituiscono in realtà una popolazione molto composita con origini, culture, lingue, confessioni religiose, governi, ecc. differenti. Tra loro sono tenuti uniti da più di un collante, ma soprattutto da un processo d’integrazione che dura tutt’ora. Questo fa sì che tutti si riconoscano in un’unica Confederazione ma nella diversità linguistica, culturale, confessionale, regionale, ecc. Purtroppo, però, quel che ogni svizzero comprende e giustifica nei connazionali in nome dell’unità nazionale non sempre lo ha saputo accettare negli stranieri, interessati a mantenere vive le loro tradizioni, la loro lingua e la loro cultura.
Gli italiani e l’integrazione
Come accennato, gli italiani non sono mai stati molto propensi all’integrazione in Svizzera (cfr. L’ECO del 25.11.2020, p. 10: Emigrazione e integrazione), tanto è vero che sono sempre stati relativamente pochi gli immigrati e le immigrate che hanno contratto matrimoni misti ed è rimasto sempre modesto fino ai primi anni Novanta il numero delle naturalizzazioni. Solo quando fu resa possibile la doppia cittadinanza (dal 1992) c’è stato un forte incremento (attualmente sono oltre 240.000 gli italo-svizzeri).
L’andamento del numero delle naturalizzazioni, che riguardano soprattutto gli italiani nati in Svizzera (oltre i due terzi del totale) indica bene che l’integrazione dei giovani italiani era già in atto in larga misura fin dagli anni Settanta e Ottanta, ma non raggiungeva il suo massimo naturale (naturalizzazione) per motivi non dipendenti da loro stessi: l’acquisto della cittadinanza svizzera comportava la rinuncia a quella italiana, l’obbligo del servizio militare e dei corsi di ripetizione per i maschi, ecc.
La situazione ha cominciato a cambiare dalla fine degli anni Settanta quando molti genitori si convinsero che i loro figli sarebbero rimasti probabilmente qui anche se loro fossero rientrati presto o tardi in Italia (cfr. articolo precedente) e tanto valeva agevolare loro la strada dell’integrazione. I benefici, purtroppo, tardarono ad arrivare, ma dagli anni Novanta, come si vedrà in un’altra serie di articoli, saranno sempre più evidenti.
Verso una nuova identità
Nel trattare del processo d’integrazione dei giovani italiani della seconda generazione nel periodo in esame ci si è spesso interrogati se esso non abbia pregiudicato addirittura la loro identità. Ad alcuni osservatori (forse un po’ superficiali) sembrava infatti che questi giovani figli di immigrati, con l’integrazione linguistica, scolastica, sociale e culturale in questo Paese, acquisissero più problemi che certezze e vivessero in una specie di stato confusionale perché, pur essendo nati e cresciuti qui non si sentivano né svizzeri né italiani. Per definire questa situazione si usò l’espressione «Weder-noch-Generation», come se un’intera generazione fosse definibile più in negativo che in positivo, come se a prevalere in quei giovani fosse la confusione e l’incertezza e non l’arricchimento derivante dall’incontro con nuove culture, nuove realtà, nuovi amici, nuove prospettive, capaci di rafforzare e persino elevare l’identità dei soggetti interessati.
In quell’epoca c’era, in effetti, molto turbamento tra i giovani, alcuni ne soffrirono a lungo, altri preferirono rientrare in Italia per eliminare alla radice il problema, tanto più che secondo un’opinione diffusa naturalizzarsi non era bello per un italiano e il passaporto italiano apriva in Europa più porte del passaporto rossocrociato!
In realtà, non era l’integrazione o la naturalizzazione che provocava disorientamento, ma l’incapacità degli adulti di vederne i vantaggi minimizzando gli eventuali svantaggi. Eppure bastava prendere in considerazione anche solo i profitti derivanti dalla conoscenza delle lingue, l’accesso a una formazione professionale con prospettive certe di un lavoro qualificato e rispettato, la possibilità di accedere a culture e mondi diversi… e tutto ciò senza alcuna perdita significativa d’identità o di dignità. Fortunatamente la maggioranza dei giovani è andata avanti…bene! (giovanni longu\aise)