ALLA SCOPERTA DEL NOSTRO SOTTOSUOLO CON L’INGV
ROMA – focus/ aise - Con uno studio durato sette anni, dal 2011 al 2017, un team di ricercatori del Dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) hanno monitorato il radon emesso in due siti della caldera dei Campi Flegrei i cui risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista Scientific Reports di Nature nell'articolo “Continuous radon monitoring during seven years of volcanic unrest at Campi Flegrei caldera (Italy)”.
Negli ultimi anni, l'interesse della comunità scientifica internazionale verso lo studio dell'emissione di radon come tracciante di fenomeni endogeni naturali (attività sismica e vulcanica) è cresciuto considerevolmente. Tuttavia, il segnale del radon monitorato nei suoli, è influenzato da molti fattori ambientali i cui effetti possono essere eliminati quando viene registrato su un lungo periodo.
Gli studiosi hanno preso in considerazione la caldera dei Campi Flegrei che dal 2004-2005 è caratterizzata da sollevamento del suolo, sismicità, cambiamenti nella composizione dei fluidi fumarolici e un aumento generale dell'emissione di fluidi vulcanico-idrotermali.
Per la misura del radon sono state utilizzate due stazioni di rilevamento progettate e realizzate dai ricercatori dell’INFN. Nell'ambito di una collaborazione con l'INGV, i due prototipi sono stati installati ai Campi Flegrei in due siti distanti da 1 a 4 km dalla zona della Solfatara e di Pisciarelli, dove la fenomenologia in corso è più evidente. Gli strumenti hanno acquisito in modo automatico per un periodo di 7 anni fornendo una serie unica di dati di radon e parametri ambientali.
“I dati acquisiti sono stati analizzati mediante tecniche matematiche innovative finalizzate ad estrarre dal segnale la parte controllata dai processi endogeni” spiega Fabrizio Ambrosino, matematico dell’Università della Campania associato all'INFN.
I risultati sono stati confrontati, poi, con gli indicatori dell’attività idrotermale della caldera, tra cui il tremore sismico generato dalla fumarola di Pisciarelli, i valori complessivi della sismicità, la massima deformazione verticale del suolo acquisita dalle reti GPS durante l'attuale fase di sollevamento. Le lunghe serie di dati evidenziano una forte correlazione del radon con segnali indipendenti e i risultati finali sono stati di notevole interesse.
“I dati ottenuti dallo studio ci hanno portato a valutare che l'area interessata dagli attuali fenomeni è più estesa dell'area in cui si verifica la sismicità e dove sono ubicate le principali manifestazioni dell'attività idrotermale, a Pisciarelli e Solfatara” afferma Flora Giudicepietro, vulcanologa dell'INGV e coautrice dello studio.
“I segnali del radon mostrano, infatti, variazioni nel tempo ben correlate con i più classici parametri geofisici e geochimici regolarmente monitorati ai Campi Flegrei” aggiunge Giovanni Chiodini, geochimico dell’INGV e coautore della ricerca.
“Questi risultati rappresentano una novità assoluta nello studio della caldera Flegrea e segnano un significativo passo in avanti nell'uso e nell'interpretazione del segnale del radon indicando come lunghe serie temporali, opportunamente filtrate dagli effetti dei parametri ambientali, costituiscono un ottimo strumento aggiuntivo nel monitoraggio dell'attività vulcanica”, conclude Carlo Sabbarese fisico dell’Università della Campania associato all'INFN, e primo autore della ricerca.
Un sistema di faglie esteso per almeno 100 km di lunghezza, lungo il quale si sono generati due ampi bacini sedimentari è stato identificato nel tratto di mare a sud-est di Santa Maria di Leuca (Lecce), grazie ad una ricerca condotta da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) nell’ambito del progetto FASTMIT, coordinato e supportato dal fondo premiale 2014 del Ministero dell’Università e della Ricerca, appena pubblicata sulla rivista “Tectonics” dal titolo ‘Active extension in a foreland trapped between two contractional chains: The South Apulia Fault System (SAFS)’.
La scoperta di tale sistema di faglie, denominato South Apulia Fault System (SAFS), è stata possibile grazie una serie di campagne geofisiche eseguite con la nave OGS Explora. Attraverso, poi, l’analisi di dati batimetrici ad alta risoluzione e di diversi profili e linee sismiche che hanno permesso di illuminare sia le strutture crostali profonde che i sedimenti quaternari che costituiscono il fondale marino, i ricercatori hanno ricostruito la geometria tridimensionale dei principali orizzonti geologici e delle faglie presenti in quest’area fino a una profondità di circa 12 km.
In particolare, lo studio congiunto OGS-INGV ha dimostrato che il SAFS ha iniziato la sua attività tettonica tra 1,3 e 1,8 milioni di anni fa, durante il Pleistocene inferiore, e che è tutt’ora attivo, come evidenziato dalla presenza di dislocazioni che interessano i sedimenti più recenti e il fondo mare. I tassi di movimento del SAFS sono nell’ordine di 0,2-0,4 mm/anno per quanto riguarda la sua componente estensionale, ma è stato possibile ipotizzare anche la presenza di una componente non trascurabile di movimento orizzontale.
L’area in cui si trova il SAFS in Puglia è una porzione sommersa del cosiddetto avampaese (cioè, una regione adiacente a una catena montuosa) della “placca Adriatica”, un’area di crosta continentale considerata stabile rispetto alle due aree di catena poste ad ovest (la catena appenninica) e ad est (la catena ellenica).
Le aree di avampaese sono tipicamente soggette a terremoti meno frequenti rispetto alle aree lungo i margini di placca e alle aree di catena, tuttavia non sono esenti da eventi di magnitudo anche significativa. In particolare, relativamente all’area studiata è storicamente noto il forte terremoto del 20 febbraio 1743, per il quale i cataloghi storici riportano una magnitudo stimata di 6.7. I cataloghi sismici riportano, inoltre, che questo terremoto causò ingenti danni sia nella regione salentina che nelle isole Ionie (Corfù, Lefkada e Cefalonia), oltre ad un probabile tsunami che interessò il porto di Brindisi. In base alla posizione geografica, alle evidenze di attività recente e all’assenza di altre strutture tettoniche di simile importanza all’interno dell’area di studio, gli esperti INGV e OGS hanno ipotizzato, dunque, che il SAFS possa essere la più probabile sorgente del terremoto del 1743.
I ricercatori auspicano che, nel futuro, ulteriori studi anche multidisciplinari permettano di acquisire nuovi dati ad alta risoluzione, così da poter comprendere con maggiore precisione la reale estensione del SAFS caratterizzandone con più precisione i tassi di attività, le implicazioni geodinamiche e gli effetti di scuotimento del sisma e dello tsunami del 1743.
Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Observatorio Geofísico Central dell’Instituto Geográfico Nacional (IGN, Spagna) ha studiato a posteriori i dati sismici ed i segnali registrati da un dilatometro da pozzo installato sull'isola di Stromboli durante l’eruzione dell’anno scorso. Dai risultati della ricerca “Geophysical precursors of the July-August 2019 paroxysmal eruptive phase and their implications for Stromboli volcano (Italy) monitoring”, appena pubblicata su Scientific Reports, sono state evidenziate delle variazioni del sistema vulcanico a partire da circa un mese prima dell'evento del 3 luglio 2019.
Nell’analisi dei dati del dilatometro, applicando un opportuno algoritmo per il riconoscimento di transienti nelle serie temporali, i ricercatori hanno evidenziato una variazione del segnale 10 minuti prima del parossismo del 3 luglio e 7,5 minuti prima del parossismo del 28 agosto 2019.
“Il condotto del vulcano Stromboli è occupato nella parte più superficiale da magma povero in gas e ricco in cristalli, nella parte più profonda, invece, da magma ricco in gas ma povero in cristalli. Durante le normali esplosioni stromboliane viene espulso il magma superficiale, di colore nero, mentre il magma più profondo riempie il condotto in risalita”, spiega Giovanni Macedonio, fisico dell'Osservatorio Vesuviano dell'INGV e coautore della ricerca.
“Il magma ricco in gas e povero in cristalli viene emesso durante i parossismi. Questo è il motivo per cui è generalmente riconosciuto che le esplosioni parossistiche sono innescate dalla rapida risalita di questo magma da una zona situata a 5-10 km di profondità. La sua rapida ascesa provoca inflazione e oscillazione del condotto superiore”, continua la vulcanologa dell’Osservatorio Etneo dell’INGV Sonia Calvari, coautrice dello studio.
“I nuovi parametri calcolati dai dati sismici registrati dalle nostre reti di monitoraggio potranno, in futuro, aiutare ad evidenziare fasi di attività sismica anomala che possono precedere di settimane l'attività parossistica. Inoltre, l'algoritmo applicato per l'analisi dei dati dilatometrici può contribuire a realizzare un sistema di allerta precoce in grado di dare un preavviso nel breve termine prima di un'esplosione parossistica” conclude Flora Giudicepietro, vulcanologa dell'Osservatorio Vesuviano dell'INGV e primo autore della ricerca. (focus\ aise)