LO "STRESS TEST” BREXIT CONTINUA – di Azelio Fulmini

BRUXELLES\ aise\ - La Corte di Giustizia ha adottato questo 10 dicembre una decisione importante che si aggiunge ai tanti cambi di scena ai quali la BREXIT ci ha ormai abituato sin dal giugno 2016, quando i cittadini del Regno Unito decisero con un referendum passato a stretta maggioranza (del resto anche il referendum sull’adesione passò con una ancor più ristretta maggioranza) di preferire l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
La sentenza della Corte di Giustizia del 10 dicembre (C-621/18) risponde ad una questione pregiudiziale che la High Court scozzese ha introdotto il 3 ottobre 2018, a seguito del ricorso introdotto il 19 dicembre 2017 da A. Wightman ed altri 6 eletti, che chiedeva di confermare se la procedura aperta dalla “notifica della volontà di lasciare l’Unione Europea” fatta ai termini dell’articolo 50 TUE dal governo del Regno Unito con la lettera del Primo Ministro, e recapitata dal Rappresentante permanente al Presidente del Consiglio europeo il 29 marzo 2017, é una procedura irreversibile. I richiedenti volevano sapere se, in altre parole, al momento del dibattito e del voto sull’accordo di recesso e sulla dichiarazione politica sull’accordo futuro, previsto alla camera dei comuni dall’11 al 18 dicembre, esiste per i Commons, oltre le due possibilità classiche, l’approvazione dell’accordo di uscita per la ratifica – con qualche modifica? - o il rigetto dello stesso con un’uscita dall’UE senza alcun accordo, la possibilità di una “revoca unilaterale della notifica della intenzione di recidere dall’UE”. In altre parole, in caso di rigetto dell’accordo di recesso, o di difficoltà ad approvarlo come tale, può in qualche modo l’assemblea pensare ad una terza ipotesi: decidere di rimanere nell’Unione, grazie alla norma UE?
Rimangono altre ipotesi: la prolungazione decisa all’unanimità del periodo di negoziato, i due anni dalla data della notifica prevista dall’articolo 50 TUE, impedendo così la fuoriuscita del Regno Unito il 29 marzo 2019, anche in assenza di un accordo sul recesso; la revoca consensuale, tutte le parti si accordano sull’annullamento della procedura aperta con la notifica del 29 marzo 2017.
Questa sentenza è arrivata giusto un giorno prima dell’apertura della procedura detta di “meaningful vote”, voto importante, ed ha fatto il giro dell’Europa dei tecnici in un battibaleno. Il dibattito in aula sull’accordo di recesso, 5 giorni intensi con la possibilità per la camera dei Comuni di accettare o rigettare d’accordo, eventualmente adottando, come deciso dal Presidente (lo Speaker), uno o più dei sei emendamenti ammissibili, era previsto dall’11 al 18 dicembre 2018. É stato prontamente rinviato.
Prima di sintetizzare cosa la corte ha detto, vale la pena di precisare cosa dice l’articolo 50 TUE. Esso introduce alcune regole di procedura, alfine di sottomettere la procedura di recesso dall’UE (e CECA, e EURATOM) a regole dell’UE, aggiuntive e speciali rispetto alle regole del diritto internazionale applicabili in materia di adesione e recesso da trattati e convenzioni, previste nella Convenzione di Vienna. L’obiettivo sostanziale era quello, come già deciso nei lavori della prima Convenzione del 2000, che riprendeva una norma già introdotta nel famoso progetto Spinelli del 1985, e con la convinzione che la regola sarebbe rimasta lettera morta, di permettere un “recesso ordinato”. L’articolo 50 prevede infatti, in sostanza, a) che lo stato membro può decidere autonomamente (qualcuno vorrebbe interpretare la frase “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione” come un’attribuzione di un potere di controllo della Corte UE sul rispetto delle regole costituzionali nazionali), b) che le parti devono accordarsi entro due anni dalla “notifica dell’intenzione di lasciare l’UE”, c) che lo Stato membro non farà più parte dell’Unione Europea entro i due anni dalla notifica, in assenza di un accordo di recesso, d) e che, a titolo eccezionale, una decisione unanime può prorogare il periodo di due anni previsto per “negoziare” l’accordo di recesso. e) La formulazione dell’articolo 50 permette, infine, implicitamente, che, nel caso di approvazione di un accordo di recesso prima dei due anni, l’uscita dall’UE può essere subordinata a eventuali regole transitorie, eventualmente relative alla entrata in vigore di quest’ultimo, o all’approvazione o entrata in vigore dell’accordo sulle future relazioni. In altre parole, il periodo di due anni previsto per il negoziato può essere prorogato: i) con decisione all’unanimità ma anche ii) con norma transitoria inserita nell’accordo di recesso. L’articolo 50 TUE non si oppone a una tale ipotesi.
La questione della possibile revoca unilaterale della procedura di recesso, aperta dalla notifica del 29 marzo 2017 fu sollevata già dall’illustre ex giureconsulto del Consiglio dei Ministri in un articolo pubblicato all’epoca, e noi avevamo espresso la stessa opinione già nell’ottobre 2016. L’articolo 50 TUE introduce delle regole sulla procedura. Non dice nulla sul fondo della procedura, né sul fondo del negoziato. La possibilità di una revoca della notifica, cioè del ritiro della manifestazione dell’intenzione di lasciare l’UE non è esclusa. Noi abbiamo sempre sostenuto che questa ipotesi, nel silenzio della norma scritta, era possibile e che il processo attivato poteva essere revocato unilateralmente o consensualmente.
Ma cosa ha deciso la Corte di giustizia? Ogni Stato membro può, dopo aver notificato al Consiglio Europeo l’intenzione di lasciare l’UE, ed aver quindi attivato la procedura prevista all’articolo 50 TUE, liberamente e fino al momento dell’uscita dall’UE, cambiare idea, e notificare ufficialmente al Presidente del Consiglio Europeo di aver cambiato idea, chiudendo così la procedura aperta dalla sua prima lettera ufficiale. Uniche condizioni: rispettare le regole nazionali per prendere la decisione; notificare al Consiglio Europeo la revoca, utilizzando le stesse forme (secondo il principio del parallelismo delle forme) utilizzate per notificare al Presidente del Consiglio Europeo l’intenzione di uscire. La revoca unilaterale è dunque possibile!
Questa sentenza è destinata a far scorrere molto inchiostro, inutile dire perché. A noi urge qui sottolinearne l’importanza sul piano dei rapporti tra il diritto nazionale ed il diritto dell’UE, soprattutto su due questioni a carattere giuridico ma di grande valenza politica, in questo momento in cui il progetto di Europa politica attraversa qualche difficoltà, momento nel quale è illusorio credere di poter disinnescare certi fenomeni antagonisti al progetto europeo semplicemente classificandoli di “sovranismo”, “populismo”. L’Europa deve “aiutare a risolvere i problemi sul tappeto” esercitando efficacemente le competenze fondamentali (Mercato Interno, Concorrenza, Libera Circolazione dei cittadini, Appalti, Trasparenza, Protezione dell’ambiente, della salute, etc.) piuttosto che giudicare i cittadini ed i governi dissenzienti. La legittimità politica democratica non si trasferisce con atti, con il trasferimento dell’esercizio di poteri, col travaso di poteri effettuato con atti coperti dal principio di legalità. Essa si conquista sul campo. Dimenticare questo principio materiale essenziale in ogni sistema democratico rischia di far rivivere alcune tristissime pagine della nostra storia.
Il grosso problema, per i gius-pubblicisti, è sempre lo stesso: sono le istituzioni comunitarie dotate di una legittimazione e legittimità politica (nel senso del diritto pubblico e costituzionale) autonome e autosufficienti, o restano ancora, dopo il naufragio del progetto di Costituzione firmato nel 2005, delle istituzioni i cui poteri, la cui legittimità, restano ancora sottomessi, condizionati, alla regola della “delega” dell’esercizio di poteri sovrani, senza trasferimento della titolarità, lo Stato restando il “dominus”? É la legittimità politica delle istituzioni europee, in termini di diritto pubblico, autonoma dalla delega? É l’UE un’entità politica autonoma e indipendente dagli Stati che la costituiscono? In presenza di una Costituzione Europea la risposta potrebbe essere positiva. Ma i trattati restano ancora un classico accordo di diritto internazionale, ai quali gli stati membri possono aderire secondo le regole del diritto internazionale, alle quali si aggiungono le regole diritto comunitario allorché esplicitate. Questo è vero per la procedura di adesione come per la procedura di ritiro, visto che l’articolo 50 TUE non pone che delle regole di procedura, e molto leggere. La Corte lo ha ammesso chiaramente. Sottomettere il potere dello stato membro, che ha comunicato la sua intenzione di lasciare l’UE, di ritirare tale comunicazione, di cambiare idea, in sostanza, all’accordo di tutti gli stati altri Stati membri comporterebbe la violazione della sua sovranità. Ogni Stato può liberamente decidere di aderire come liberamente decidere di uscire dall’UE.
Ci permettiamo di aggiungere che questo significa che la Corte di giustizia riconosce che la relazione tra la norma comunitaria e la norma nazionale, la regola della “prevalenza”, non ha natura ontica, non ha carattere gerarchico, nel senso del diritto pubblico, cioè di norma di rango superiore, ma ha carattere tecnico, cioè la norma UE prevale perché norma speciale. Molto altro si potrebbe dire ma non c’è qui abbastanza spazio.
Chiudiamo con alcune interrogazioni sulle quali riflettere. Quali sono le relazioni ancora oggi esistenti nel quadro giuridico del diritto comunitario, della attuale struttura istituzionale dell’UE, tra legittimità politica, legalità, e sovranità? È il rispetto del principio di legalità sufficiente per trasmettere la legittimità politica? Quali i limiti, da rispettare, oggi fatti alle istanze pubbliche e alle elites, in un sistema a democrazia indiretta, poco importa se legalmente esercitate, alfine di salvaguardare i nostri sistemi di democrazia indiretta? Può l’articolo 7 TUE essere il grimaldello (quasi-federale) dell’intervenzionismo intra-europeo, nonostante le “nuove” formulazioni (non anodine) proprie agli articoli 4, 1 e 2, e 5.1, tanti per citarne solo due?
Cosa potrà fare adesso il Parlamento di Londra? Potrà approvare l’accordo. Potrà rigettare l’accordo. Cosa potrà fare il Ministro competente, in questo secondo caso, ai termini della sez. 13, del Withdrawal Act del 2018, la legge sull’uscita dall’Unione Europea? Avrà i 21 giorni di tempo concessigli per presentare una Dichiarazione alternativa, eventualmente riguardante un nuovo negoziato. Il Parlamento inglese potrebbe anche adottare fino a 6 emendamenti alla risoluzione sull’accordo di recesso, o tentare di adottare degli emendamenti all’accordo, ma rimane difficile capire come. Il governo potrebbe dimettersi, o fare oggetto di una mozione di sfiducia, ed il nuovo gabinetto potrà tentare di rinegoziare l’accordo. Ma Madame May ha appena ricevuto la conferma dall’assemblea Tory. Potrà essere sconfitta in un possibile voto di sfiducia della Camera dei Comuni? il Labour minaccia un voto di sfiducia ad personam, facendo intravedere una strategia bipartisan per il “remain”. Potrebbe essere seguita la strada olandese: dopo un primo referendum negativo, la Commissione adottò una Dichiarazione politica favorevole sulle questioni più calde per permettere di accontentare una parte dell’opinione pubblica...? I brexiters più morbidi potrebbero cambiare idea. Un nuovo referendum potrebbe essere organizzato.
Ma i tempi sono molto corti. C’è chi pensa ad elezioni anticipate, nel gennaio 2019. Un risultato elettorale positivo per i partiti del “remain” potrebbe permettere al nuovo governo di inviare, con la massima urgenza, la notifica della decisione di non aver più l’intenzione di uscire dall’Europa, cioè la decisione di ritirare la prima notifica, con l’effetto immediato e incondizionato di interrompere la procedura aperta il 29 marzo 2017. Se il plico contenente questa lettera ufficiale dovesse arrivare al segretariato del Consiglio Europeo prima della mezzanotte del 29 marzo 2019, il giurista lo può affermare, esso avrebbe l’effetto di interrompere automaticamente e senza condizioni la procedura ed annullarla retroattivamente. E l’UE potrebbe continuare a 28 come se niente fosse successo. Ma sono queste ipotesi “remainiste” credibili, realiste? Difficile.
Già nell’ottobre 2016 concludevamo esprimendo dubbi sulla strategia adottata dalle istanze UE. Abbiamo sempre ritenuto che la BREXIT avrebbe potuto rappresentare un’occasione per rafforzare la “legittimità politico-istituzionale propria” dell’UE, come soggetto politico, pubblico e istituzionale autonomo, sia sul piano interno che internazionale. Usarla come “avvertimento interno” è prova di debolezza. La situazione nella quale un Consiglio d’Amministrazione forte contrasta gli azionisti appare un modello non utilizzabile nelle strategie che si vogliono “democratiche”. L’assetto istituzionale dell’UE, la sua “governance”, hanno ormai acquisito un ruolo fondamentale nell’agora politica in Europa. Questo comporta nuovi obblighi a carattere politico, che oltrepassano la co-organizzazione di campagne elettorali. L’originale dimensione “tecnica” non basta più. Ma la dimensione politica di un qualsiasi assetto istituzionale che si vuole democratico si costruisce concretamente e sul terreno. L’Europa politica è molto giovane nell’immaginifico collettivo. Il risultato alle prossime elezioni europee potrebbe essere molto positivo, nella prospettiva di un futuro governo democratico dell’UE, ma potrebbe anche risultare molto divisivo a brevissimo termine, e rappresentare uno duro stop all’attuale gestione della governance UE, con possibili effetti negativi sul processo d’integrazione europea a lungo termine.
I rischi sono molti. Potrà la Brexit o un’eventuale revoca unilaterale del Regno Unito dare, in ogni caso, una scossa positiva alla legittimità politica dell’UE? Questa è la vera sfida, per noi. (azelio fulmini*\aise)
* avvocato a Bruxelles, già referente alla Corte di Giustizia Europea