L’Italia emigra ancora: oltre 7 milioni gli iscritti all’AIRE – di Carmelo Vaccaro

GINEVRA\ aise\ - “Una valigia di cartone per riporre i sogni, e un treno a cui affidare la speranza”. Questa immagine, oggi forse un po’ sbiadita dal tempo, continua a parlarci con forza. Le valigie di cartone non esistono più, certo, e nemmeno quei treni affollati in partenza dalle stazioni del sud, carichi di speranze e promesse. Oggi si viaggia in aereo, si parte con un biglietto elettronico e con uno smartphone in tasca. Ma la sostanza non è cambiata. Ancora oggi si lascia l’Italia per cercare qualcosa che qui sembra mancare: un futuro, un’opportunità, una vita dignitosa. I sogni continuano ad avere bisogno di una valigia, e la speranza resta legata a un mezzo di trasporto, qualunque esso sia. Ma tutto questo, a che prezzo?
Se ripercorriamo la storia dell’emigrazione italiana, scopriamo una realtà impressionante: tra il 1860 e il 1985, oltre 29 milioni di italiani hanno lasciato il Paese. Un numero enorme, superiore alla popolazione dell’intera nazione al momento dell’Unità d’Italia. Partirono famiglie intere o singoli individui, e raggiunsero ogni angolo del mondo occidentale. Molti non fecero più ritorno. Alcuni morirono lontano, nei cantieri, nelle miniere, nelle fabbriche, vittime della fatica, delle malattie, o della solitudine. Di loro si è parlato poco, troppo poco.
Oggi, paradossalmente, sembra che si voglia cancellare quella memoria collettiva, quasi fosse una pagina da dimenticare. Si approvano leggi e decreti che ignorano, quando non sminuiscono, la realtà degli italiani all’estero. In certi casi si ha perfino l’impressione che si provi imbarazzo di fronte all’esistenza di questa “altra Italia”, fatta di cittadini che hanno scelto o dovuto scegliere l’esilio economico. Come se l’italianità fosse legittima solo entro i confini nazionali.
Eppure, questa italianità emigrata ha dato frutti straordinari. Gli italiani nel mondo si sono distinti per capacità di adattamento, spirito di sacrificio e talento. In molti Paesi sono diventati parte integrante del tessuto sociale e politico, contribuendo allo sviluppo di intere comunità. Hanno saputo conservare la propria identità senza rinunciare all’integrazione. In tanti luoghi, oggi, l’italiano non è più visto come “l’emigrante”, ma come un esempio positivo di integrazione riuscita.
Chi ha vissuto l’esperienza della migrazione sa bene cosa significhi. Emigrare è un atto carico di coraggio, ma anche di rinunce profonde. È lasciare indietro una parte di sé: la propria casa, gli affetti, le radici. È affrontare la solitudine, l’incertezza, la nostalgia che si fa più pungente nelle notti silenziose o durante le feste tradizionali. È accorciare le distanze con la mente, cercando di far sembrare i chilometri più brevi, immaginando di poter abbracciare ancora, almeno per un istante, un genitore, un fratello, una nonna.
E se oggi, con un’Europa apparentemente più unita, il termine “emigrato” sembra meno marcato, la realtà ci racconta che chi parte lo fa ancora per necessità. La forma cambia, ma la sostanza resta: si continua a emigrare perché non si trovano, in patria, le condizioni per realizzarsi. Non si parte mai per capriccio, ma per mancanza di alternative.
Sono convinto che chi è partito, oggi come ieri, porta dentro di sé una ferita che non si rimargina mai del tutto: quella del distacco. Ma sono altrettanto convinto che, proprio per questo, dobbiamo sentirci responsabili gli uni degli altri. Quando incontriamo un nostro connazionale in difficoltà, non voltiamoci dall’altra parte. Aiutiamolo, anche solo con una parola, un gesto, un sorriso. Anche solo per risparmiargli quella maledetta sensazione di solitudine che noi, da italiani all’estero, conosciamo fin troppo bene.
Perché l’emigrazione non è solo un fenomeno statistico: è una storia di vite, di speranze, di dolori e di riscatti. E questa storia è la nostra. (carmelo vaccaro*\aise)
* coordinatore saig