Il mondo è pronto a perdere l’associazionismo italiano? - di Carmelo Vaccaro

ROMA\ aise\ - Le associazioni italiane all’estero, sin dai tempi delle prime grandi emigrazioni, hanno svolto un ruolo fondamentale nel mondo. Da un lato, esse hanno rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per chi lasciava la propria terra in cerca di migliori opportunità; dall’altro, hanno mantenuto vivo quel legame culturale, identitario e affettivo con il luogo d’origine.
Oggi, sebbene molte di queste realtà esistano ancora, esse si aggrappano con fatica a quel cordone ombelicale che le tiene collegate alle radici italiane. Ma il mondo, e in particolare l’Italia stessa, è pronto a lasciar andare questa forma di associazionismo? In pochi conoscono l’importanza delle migliaia di associazioni che, nel corso di oltre 150 anni di emigrazione, sono nate e si sono diffuse in ogni angolo del globo, da piccoli circoli di provincia a grandi organizzazioni nazionali.
La storia dell’associazionismo italiano all’estero è stata tutt’altro che semplice. Ha dovuto affrontare sfide su vari fronti, sia interni che esterni. Se da una parte ci sono stati casi, anche se sporadici, di individui che hanno cercato di approfittare di queste strutture per meri guadagni personali, o per acquisire vantaggi a livello politico e sociale, dall’altra gli attacchi più duri sono arrivati negli ultimi decenni, con una mancanza evidente di ricambio generazionale. Questa perdita non è solo numerica, ma anche culturale: con la scomparsa di queste associazioni, si rischia di perdere una parte fondamentale della nostra memoria collettiva e del nostro patrimonio immateriale.
A complicare ulteriormente la situazione è intervenuta una certa disattenzione da parte delle istituzioni italiane, che negli ultimi anni sembrano aver adottato un atteggiamento di progressivo distacco nei confronti dell’associazionismo storico. Invece di valorizzare e sostenere queste organizzazioni, molti governi hanno dato l’impressione di vergognarsi di questo modello associativo, concentrandosi piuttosto su realtà rappresentative a livello nazionale, che appaiono più moderne e meglio strutturate. Questa scelta ha avuto un impatto negativo, riducendo la visibilità delle associazioni storiche e trascurando il loro ruolo di rappresentanti della lingua, della cultura e dei valori italiani all’estero.
Per decenni, tali associazioni hanno costruito l’immagine dell’Italia nel mondo, contribuendo in maniera sostanziale alla crescita dell’Italia con le imposte agli immobili, promuovendo e acquistando prodotti italiani e al cosiddetto “turismo di ritorno”.
Nonostante questo scenario, che esprime un dato di fatto, esistono ancora oggi italiani all’estero che credono fermamente nei valori dell’associazionismo. Queste persone, spesso giovani, cercano di portare avanti una tradizione di rappresentanza collettiva, inaugurando esperienze innovative e rilanciando il concetto dell’agire insieme per il bene comune. Queste nuove realtà tentano di combinare l’eredità del passato con una visione moderna e dinamica, capace di rispondere alle sfide del presente. Tuttavia, molti di questi tentativi si scontrano con ostacoli burocratici, in particolare con la “Circolare 2 del 2013”, che stabilisce criteri piuttosto rigidi per il riconoscimento delle associazioni da parte dello Stato italiano.
È essenziale chiarire che una “Circolare”, oltre a proporsi interpretativa, è un atto interno di una pubblica amministrazione, emanato da un superiore gerarchico per fornire indicazioni ai dipendenti su come comportarsi in determinate situazioni. Non si tratta quindi di una fonte del diritto rivolta ai cittadini, ma di un documento con finalità esplicative, volto a uniformare l’operato del personale amministrativo.
Nel caso della Circolare 2, questa prevede che lo Stato riconosca un’associazione solo se essa è regolarmente costituita, ha uno statuto, un comitato direttivo, dimostra di essere attiva e conta almeno 35 iscritti. Questo ultimo requisito ha sollevato, in molti casi, problemi legati alla privacy, poiché alcune associazioni non vogliono o non possono fornire i nominativi dei propri iscritti. Senza questo dato, tuttavia, l’associazione non può essere iscritta all’Albo Consolare.
Da un lato, è comprensibile che le istituzioni italiane richiedano trasparenza, ma dall’altro è necessario riconoscere le legittime preoccupazioni di chi, per motivi di riservatezza, non può divulgare i dati degli associati. Una soluzione potrebbe essere l’introduzione di un’autocertificazione da parte del presidente dell’associazione, un atto che potrebbe rafforzare il rapporto di fiducia tra istituzioni e associazioni, semplificando il processo di riconoscimento senza violare i diritti alla privacy.
Un altro punto controverso della Circolare riguarda l’obbligo per un’associazione di operare ininterrottamente per almeno cinque anni nel paese di residenza prima di poter essere iscritta all’Albo Consolare. Solo dopo altri cinque anni di iscrizione all’Albo, l’associazione acquisisce il diritto di partecipare ad attività istituzionali come l’elezione dei membri del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero).
Questo iter risulta eccessivamente lungo e complesso, specialmente per le associazioni più giovani o quelle che nascono in contesti in rapida evoluzione. Imporre tempi così dilatati rischia di scoraggiare l’iniziativa e di penalizzare associazioni che, sebbene di recente formazione, hanno dimostrato un alto livello di impegno e radicamento nella comunità.
Non esistono ricette già pronte per affrontare il cambiamento, ma rimanere inerti di fronte alla perdita di importanti rappresentanti della comunità italiana all’estero, per futili motivi burocratici, è sicuramente deprecabile. Queste realtà hanno svolto, e in molti casi continuano a svolgere, un ruolo essenziale per la conservazione della nostra cultura e delle nostre tradizioni all’estero.
Da queste associazioni sono nati nel tempo enti specializzati che forniscono servizi essenziali, dalla tutela e assistenza ai migranti, alla promozione culturale, sociale ed economica. Queste associazioni, attraverso la loro opera, hanno saputo mantenere un equilibrio delicato tra la conservazione dell’identità italiana e l’integrazione nei paesi di accoglienza.
Negli ultimi anni, al tradizionale associazionismo si sono affiancati nuovi gruppi virtuali, che attraverso i social network offrono spazi di condivisione e dialogo tra italiani all’estero. Questa evoluzione dimostra che l’associazionismo non è un modello superato, ma che può adattarsi e trasformarsi per rispondere alle esigenze del presente. Tuttavia, la mancanza di sostegno da parte delle istituzioni italiane rischia di compromettere questo sviluppo.
All’associazionismo italiano nel mondo va riconosciuto il merito di essere stato, e di essere tuttora, un punto di riferimento fondamentale per la promozione della cultura italiana. Molti emigrati italiani hanno sacrificato momenti significativi della loro vita, come il piacere di vedere i primi capelli bianchi dei propri genitori o le rughe che solcano i loro volti. Si potrebbe obiettare che questa è stata una scelta personale, ma oggi ci si chiede quale sia ancora il senso di questa scelta.
Credo sia fondamentale riconoscere il rispetto che queste associazioni meritano. Esse rappresentano un ponte tra l’Italia e la sua diaspora. Il loro contributo non può essere sottovalutato, e occorre uscire da una logica tradizionalista per permettere a queste realtà di evolversi e adattarsi al futuro, affinché continuino a rappresentare l’Italia nel mondo.
Ogni italiano che vive all’estero ha conquistato questo rispetto, vivendo la propria storia di emigrato, contribuendo alla diffusione della cultura italiana e mantenendo viva la propria identità in terre lontane. Quindi, la domanda si pone spontanea: Il mondo è pronto a perdere l’associazionismo italiano? (aise)