Italia la sfida dell’immigrazione. Passato, presente, futuro dell’emigrazione italiana. Una memoria utile - di Marco Gallo

BUENOS AIRES\ aise\ - È per me oggi motivo di gioia e di soddisfazione descrivere alcuni aspetti dell’Italia, dei suoi cambiamenti, legati soprattutto ai flussi migratori e ai rapidi cambiamenti che ha trasformato la fisionomia del nostro Paese.
Pensando all’Italia prevalentemente agricola della metà dell’Ottocento dobbiamo rilevare proprio andando indietro in quegli anni che, mentre nel decennio 1860-1870 l’andamento generale dell’agricoltura era stato lievemente ascendente, gli anni successivi si erano contraddistinti per una lunga crisi concomitante alla grande depressione internazionale che ebbe il suo momento più acuto nella prima metà degli anni Ottanta. Sotto la pressione di un crollo accelerato dei prezzi dei principali prodotti agricoli e dell’industria legata all’agricoltura, in un trend discendente da quasi dieci anni del prodotto lordo del settore primario che aveva raggiunto il suo massimo nel 1873, giunsero finalmente a maturazione le decisioni per un’azione di sostegno e di aiuto da parte dello Stato. In questo quadro di precari equilibri economici si deve situare l’inchiesta agraria del parlamentare Stefano Jacini, iniziata alla fine del 1880 e conclusasi nella sua stesura definitiva nel 1884.
L’inchiesta è un’esatta radiografia dei mali e degli squilibri esistenti nelle “Italie agricole”, che si presentano agli osservatori parlamentari. Le condizioni igieniche, sanitarie, abitative dei contadini, i duri orari di lavoro a cui sono costretti i lavoratori della terra sono ben tratteggiati nell’inchiesta quando si parla delle “condizioni fisiche, morali, intellettuali ed economiche dei contadini”.
Eccone un significativo passo che illustra la situazione della regione veneta: “...le abitazioni dei contadini che altrimenti si potrebbero chiamare canili sono uno sfregio all’umanità. La mancanza d’aria e l’umidità sono i primi difetti; una saletta che serve da entrata e nella quale c’è la scala che addice al piano superiore, a destra un camerone che scese da cucina e nella quale poche miserabili suppellettili vi fanno mostra di sé. Di due stanze è formato il piano superiore, stanze strette e basse, nelle quali la quantità, in metri cubi, d’aria è insufficiente alla respirazione; in ognuna due o tre persone più che coricarsi per avere quel riposo che loro giustamente competerebbe specialmente dopo i lavori festivi, si gettano mezzo vestiti e mal riparati poiché le imposte o non ci sono o non chiudono bene. I tetti poi in molte case coloniche non si conoscono...”.
Queste drammatiche condizioni qui descritte spingono molti italiani ad emigrare nei nuovi mondi: Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Brasile, Argentina. L’America Latina e particolarmente l’Argentina sono state proprio in questa seconda parte del secolo diciannovesimo meta di una grande massa di emigrati italiani: all’interno di questi flussi migratori si possono definire tre fasi: la prima che va dal 1850 al 1875 riguarda l’arrivo dei primi nuclei di italiani, per lo più rifugiati e profughi politici, appartenenti ai nuclei anarchici e repubblicani (si ricordi come, al di là del Rio della Plata, Montevideo fu luogo di permanenza di Garibaldi); in questo periodo l’Argentina ricevette una media annuale di 11.600 persone, di cui il 60% era rappresentato da italiani. Ma la seconda fase dei flussi migratori rappresenta senza dubbio, per quantità e rappresentatività regionale, la più imponente; difatti tra il 1881 ed il 1900 entra in Argentina quasi un milione e mezzo di persone (di cui 911.000 italiani) tra il 1900 ed il 1915 arrivano in Argentina oltre un milione e mezzo di persone; l’impatto di questi emigrati, trasforma rapidamente il volto della societá platense e contribuirà enormemente al decollo economico e sociale di una società fino ad allora eminentemente rurale. La terza fase migratoria è quella che riguarda il periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale; tra il 1946 ed il 1957 si registrerà la terza ed ultima ondata di emigrati italiani, circa 500.000 persone.
Le diverse ondate migratorie si differenziano, come detto precedentemente, sia per composizione regionale sia sociale: se nella prima si riscontra una forte presenza anarchica e rivoluzionaria con elementi borghesi o dell’esercito, la seconda fase e la terza sono rappresentati dalle classi più umili, per lo più contadini, artigiani ed addetti del piccolo commercio, qui sono presenti le fasce più consistenti di un cattolicesimo italiano con i tratti di una devozione religiosa popolare sradicata dalle proprie origini, che porrà alla Chiesa non pochi problemi di evangelizzazione e di educazione religiosa. In effetti la Chiesa in Argentina esce dal periodo coloniale e dalle guerre civili con una struttura organizzativa ancora embrionale; poche diocesi, cinque in Argentina con territori vastissimi, spesso senza vescovi o con vescovi molto anziani e con un’enorme carenza di clero. Si può pienamente concordare con uno storico argentino, Castellani, che a proposito del cattolicesimo ha dato la seguente interpretazione: “si tratta di un cattolicesimo in cui è quasi totalmente assente la decisione personale. Si nasce cattolici, per cui non esiste problema di conversione ma solo di ominizzazione. Essere cristiani equivale ad essere argentini, é un problema di aria, di suolo, di radici, Questa religiosità formale, che non va al di là del rito, era tanto radicata al suolo che nessun movimento o partito o associazione l’avrebbe potuta rappresentare, mentre avrebbe potuto andare d’accordo con qualsiasi tipo di organizzazione politica”.
Dobbiamo anche tener presente, come lo sviluppo e la conservazione della lingua italiana oltre agli istituti legati alle associazioni di mutualità e beneficenza, che hanno nella Dante Alighieri, la loro punta di diamante, penso al ruolo che questa istituzione ha assunto qui a Buenos Aires e nella grande provincia bonaerense ed in altre città del paese latinoamericano, ma non bisogna dimenticare il ruolo di una congregazione religiosa che tanto ha lavorato per l’assistenza agli emigrati italiani e per la diffusione della stessa lingua nelle nuove generazioni dei figli di immigrati; mi riferisco alla congregazione salesiana, fondata da Don Bosco.
La congregazione religiosa di Don Bosco è stata la prima congregazione che è penetrata in profondità nella società argentina, soprattutto attraverso l’educazione scolastica e religiosa ed una catechesi, che ha raggiunto le punte più lontane del paese, come la Patagonia. Quando Don Bosco nel 1875 invita i primi missionari in America Latina, fra le sue raccomandazioni principali emerge quella dell’assistenza “ai nostri poveri connazionali emigrati al Rio della Plata”. Gian Fausto Rosoli, presenta l’azione dei salesiani a tre livelli; un primo livello è quello dell’assistenza religiosa, di tipo tradizionale (le grandi parrocchie nelle città) o di tipo moderno (come le missioni). Un secondo livello è costituito dalla funzione della lingua e della cultura italiana, attraverso l’istituzione di scuole e la pubblicazione di libri e riviste per gli immigrati; un terzo ed ultimo livello è quello costituito da una funzione di mutualismo e di formazione di cooperative. Un particolare rilievo assunse prima il Segretariato del popolo e poi l’associazione “Italica Gens”, di aiuto, consulenza ed assistenza agli emigrati italiani, promossa dai Salesiani d’intesa con i circoli cattolici italiani più nazionalisti.
Fin qui abbiamo visto una faccia, un risvolto dell’Italia emigrata all’estero, che tanto beneficio e cultura del lavoro ha portato a questo paese; è certo che non mancano le ombre di una nostra presenza; potremmo riflettere anche sull’esportare i nostri conflitti nostrani, i nostri campanilismi o anche gli scontri ideologici; ma mi sembra nel complesso che il bilancio é fortemente positivo.
L’Italia, come tutto il mondo è cambiata tantissimo in questi ultimi decenni, è un’accelerazione che ha interessato tutto il mondo, che ha cambiato direi anche antropologicamente il nostro paese; da paese di emigrati a paesi che riceve immigrati, anche se questo dobbiamo dire che è un fenomeno strutturale delle migrazioni. Non si può combattere oggi il problema dell’immigrazione, invece che risolverlo; in questo modo andremmo contro la nostra natura. Vorrebbe dire vanificare gli sforzi di tutte quelle persone che hanno lasciato la propria casa ed i propri cari, in nome dell’amore che nutrivano nei loro confronti, in cerca di una vita migliore. Risolvere, quindi e non combattere l’immigrazione sarebbe il compito di ognuno di noi, prendendo esempio dalle centinaia di comunità italiane presenti in tutto il mondo, come in Argentina, perfettamente e bene integrate con gli abitanti originari.
Mi sembra allora che il problema grande che oggi deve affrontare l’Italia insieme all’Europa è il problema dell’integrazione degli immigrati. Il processo d’integrazione dura anni, passa per l’apprendimento della lingua e della cultura, passa per il lavoro e l’inserimento abitativo, per quello delle relazioni sociali e tanto altro. Questo processo inizia dai primi momenti dell’arrivo; fa la differenza se ad accoglierti trovi una parola di Benvenuto, una buona cena siriana, il cibo eritreo o piuttosto le maglie del filo spinato, un muro alto o addirittura i respingimenti. Quei primi momenti, decidono, in parte, l’esito positivo o meno che l’integrazione avrà. In Europa si sono creati nuovi muri. I muri non sono la risposta al problema dell’immigrazione. Bisogna essere chiari su questo. Non solo nel senso che non si risolvono, e sicuramente non sono una soluzione. Anzi, rendono le vie più pericolose provocando ancora più morti. Ma nel senso che i muri non sono solo una reazione all’immigrazione, ma sembrano piuttosto il risultato di problemi intrinseci alla nostra società: i muri sono la risposta irrazionale e semplificata alle paure, alle contraddizioni prodotti della nostra epoca contemporanea. Il muro è, in parte, il prodotto della disgregazione dei tessuti sociali e comunitari, della solitudine radicale – ontologica- che é una tra le malattie peggiori prodotte dalla modernità.
Dobbiamo capovolgere le nostre prospettive: la presenza dei profughi e degli immigrati é un dono per i nostri paesi, per i nostri giovani, è un dono anche per l’Europa che assomiglia sempre più a una vecchia signora.
Nell’accoglienza c’è anche una ragionevolezza economica; oggi le economie europee sono rette e non vanno in bancarotta grazie al lavoro e alle tasse pagate dagli immigrati. Molti lavori umili nel settore agro–industriale non è più svolto dagli italiani, penso per esempio alla raccolta dei pomodori nel Sud Italia, dove spesso la manodopera straniera è sottopagata, sfruttata e controllata dalle mafie locali. Da un’altra parte l’assistenza alle persone anziane è maggioritariamente svolta dalle badanti immigrate. Ragioni fisiologiche legate anche al progressivo ed irreversibile invecchiamento della popolazione italiana obbliga il nostro paese a una richiesta di manodopera straniera; senza tale manodopera l’Italia rischia un vero tracollo economico. Ma oltre alle motivazioni economiche penso esistano delle motivazioni etiche. La Regina Rania di Giordania, in un’interessante intervista ad un prestigioso quotidiano italiano, qualche tempo aveva parlato come nel suo paese ci sono 1.300.000 profughi dalla Siria, in un piccolo paese che ha solo 6 milioni di abitanti ed ha fatto la seguente eloquente dichiarazione: “Se avessimo fatto affidamento sulla scelta razionale e logica, non avremmo preso nessun rifugiato. Semplicemente, perché non abbiamo abbastanza risorse da condividere. La nostra decisione è stata quindi umanitaria e morale”.
Se vogliamo considerare l’intera popolazione immigrata nei paesi europei, arriviamo a 34 milioni, tra europei e non europei, di cui molti residenti nel paese di arrivo da molto tempo. Parliamo, quindi, di numeri gestibili per un grande continente di quasi 500 milioni di persone, senza contare la Gran Bretagna. Gli attacchi terroristici di questi ultimi tempi, quasi quotidiani in tante e diverse parti del mondo hanno accentuato la paura verso gli immigrati, soprattutto verso i musulmani. Ma vale la pena ricordarlo, i musulmani rappresentano solo il 4% della popolazione europea. La maggior parte dei migranti sono cristiani, in particolare ortodossi. Alcuni paesi cristiani dell’Est hanno paura di un’invasione ostile, anche per la loro storia legata alla perdita d’identità determinata dal lungo periodo di regime sovietico. Ma anche questi paesi devono cambiare le loro prospettive, perché sono paesi che dal punto di vista demografico stanno morendo, come la stessa Ungheria, che registra una forte diminuzione della popolazione e un progressivo ed inarrestabile invecchiamento. E così la Polonia anche se in maniera meno accentuata. L’immigrazione sembra una necessità per la sopravvivenza di queste popolazioni. Oggi si discute su modelli d’accoglienza, l’idea sembrava che dovesse prevalere un modello pubblico, istituzionale, centralizzato, con grandi centri, organizzati in modo rigoroso, etc. È forse è stata una reazione a scandali o interessi poco leciti che si sono raggruppati attorno alle emergenze legate all’accoglienza. In Italia si è parlato molto di questo. Il controllo sulle procedure, necessario, sembra conciliarsi solo con un modello burocratizzato, spersonalizzato, che vede la società civile come presenza solo da tollerare e se possibile da tenere a distanza, con una funzione residuale di supporto. Penso che oggi un modello vincente possa essere quello “adottivo”. L’Italia ha nella sua storia la tradizione dell’adozione dei bambini, sia a livello nazionale che internazionale. Ma da più di 35 anni questo stesso modello adottivo ha già dato buoni frutti sui temi dell’immigrazione. Si pensi ad esempio che bene o male più della metà degli immigrati (che son in gran parte donne) sono entrati nelle case delle famiglie italiane, hanno lavorato con gli anziani, con i bambini, con i disabili e così è nato un sistema adottivo d’integrazione, perché gli immigrati sono entrati nel cuore della cultura e delle famiglie.
In una tavola rotonda di qualche anno fa sulle immigrazioni il sociologo italiano Stefano Allievi ha parlato dell’importanza dell’integrazione come sviluppo del paese e dell’Europa intera. Bisogna passare da un’idea emergenziale dei flussi migratori a quella strutturale. In questa prospettiva si può concordare con le sue affermazioni: “Fino a qui abbiamo visto soprattutto cosa accade a monte degli sbarchi, e le possibili soluzioni che si possono porre in atto. Ma anche a valle c’è molto da fare. Innanzitutto occorre uscire, oltre che dall’emergenza, dalla mentalità emergenziale, che continua a farci gestire un fenomeno che in sé è strutturale con soluzioni improvvisate e totalmente prive di strategia. Non si tratta di accontentarsi di fare un’accoglienza spesso senza vere prospettive (come accade soprattutto nei paesi dell’Europa del Sud) a dei richiedenti asilo che nella maggior parte dei casi non verranno riconosciuti come tali. Bisogna passare dall’accoglienza emergenziale all’integrazione strutturata: fatta di agenzie nazionali che si occupano davvero della questione, che indicano criteri minimi di integrazione, che controllano, selezionano, valutano e respingono le associazioni e gli organismi che non lavorano all’altezza degli standard individuati. L’integrazione è fatta di apprendimento rapido e intensivo della lingua, di conoscenza della cultura del paese in cui ci si trova, di formazione professionale (tanto più importante dato il basso livello di istruzione di partenza: il numero degli analfabeti anche nella loro lingua d’origine, tra gli attuali richiedenti asilo, è in crescita esponenziale) e di orientamento al lavoro: presuppone dunque delle linee guida stringenti e l’attivazione delle professionalità necessarie (en passant: si tratta di un mercato del lavoro specializzato che si apre, soprattutto per professionalità autoctone). Se pensata come tale, si tratta di un investimento (come lo è la scuola, per capirci): che in pochi mesi, o in un anno (comunque a molto minor prezzo di un percorso scolastico tradizionale), può creare cittadini e lavoratori integrabili nella società e nel mercato del lavoro. Diversamente, se limitata all’accoglienza e a un generico diritto di permanenza, rischia di essere una spesa improduttiva, che per giunta può produrre in misura significativa dropout e irregolari che possono diventare problematici per la società”.
A questo livello si può descrivere la positiva esperienza dei “corridoi umanitari” che negli ultimi sette anni anni, dal 2016 ha potuto accogliere in Italia circa 7.000 rifugiati dalla Siria, dall’Etiopia e da alcuni paesi africani, afflitti da guerre e conflitti di bassa intensità. In Italia, ribadisco l’invecchiamento demografico e il declino della natalità hanno raggiunto soglie preoccupanti. La penisola, inoltre, rischia di non essere più attrattiva. Sono circa 157mila, infatti, gli italiani che hanno lasciato il nostro paese, ma “circa 33mila, poco meno del 30%, è costituto da cittadini italiani di origine straniera che non sentono più l’Italia come il luogo del loro futuro”. C’è una presenza giovane che “non può essere considerata solo un problema e sta producendo una trasformazione positiva”. “Paradossale è che il fenomeno epocale delle migrazioni si possa ancora affrontare con l’arma anacronistica, dimostratasi inefficace, dei muri”: E invece è “il momento opportuno per l’Europa nei suoi 70 anni di storia di superare le paure, per modificare leggi e crearne di nuove: è quello che già è avvenuto in questi ultimi tre anni con l’apertura di Corridoi Umanitari da Italia, Francia, Belgio e Andorra. Sono già oltre 7.000 le persone giunte in condizioni di sicurezza, sottratte al traffico di esseri umani e a rischio della morte in mare. (marco gallo*\aise)
* direttore della Cattedra Pontificia dell'UCA e coordinatore delle attività culturali della Società Dante Alighieri per l'Argentina