“NOUMENO. Il segno oltre l’esperienza” in mostra a Formello (Roma)

ROMA\ aise\ - Il "Noumeno" kantiano diventa il segno di un percorso sull'arte di sei artisti contemporanei. Inaugura a Formello (Roma), il prossimo 3 maggio alle 18:00 - nella Sala Orsini di Palazzo Chigi (Piazza San Lorenzo,1) - la mostra “NOUMENO. Il segno oltre l’esperienza”, visibile fino a domenica 18 maggio.
Sono esposte le opere di Ennio Calabria, il grande artista scomparso il primo marzo dello scorso anno, Carlo Frisardi, Danilo Maestosi, Nino Pollini, Stefano Piali e Vinicio Prizia.
L’iniziativa, organizzata dal Centro per l’Incisione e la Grafica d’Arte del Comune di Formello diretto da Vinicio Prizia, ha ottenuto il patrocinio del Comune di Formello, Assessorato alla Cultura.
Nel catalogo, curato dallo stesso Prizia, il saggio critico di Claudio Crescentini spiega il nesso con la filosofia di Kant, in qualche modo padre del pensiero contemporaneo. Kant si pone volutamente nel mezzo di due correnti, quella razionalista e quella empirica, creando una situazione di equilibrio fra ragione ed esperienza, o meglio, come lo stesso filosofo le definisce, fra Fenomeno e Noumeno. Il primo si concentra sull’oggetto della conoscenza, ciò che appare, mentre il Noumeno è l’essenza stessa delle cose, la cosa così com’è. Kant quindi stabilisce una distinzione tra mondo sensibile, empirista e un mondo intellegibile, razionalista.
Partendo da queste riflessioni gli artisti, tramite una trasgressione culturale e di pensiero, descrivono il Noumeno, l’essenza propria delle cose, come un elemento di bilanciamento fra pensare e agire e lo sviluppano in una pluralità di linguaggi e teorie estetiche che la peculiarità del loro registro artistico sa ben rappresentare.
E non è un caso che gli autori delle opere esposte abbiano ruotato, per via di pensiero e/o per via amicale, attorno all’arte e alle stesse idee di un artista come Ennio Calabria che sin dagli anni giovanili si interrogava proprio su questi temi e di come influenzassero il gesto e il segno dell’arte o meglio “del fare arte” per usare una sua espressione. I visitatori potranno ammirare alcune delle sue opere che danno il senso della sua grandezza, quel tratto distintivo che si è evoluto nei decenni, dagli anni Novanta fino al XXI secolo. Ne sono un esempio alcuni preziosi pastelli: partendo da Senza titolo del 1995 che rimanda all’urgenza della seria Ambiguità dell’intravisto degli anni Novanta, fino allo studio tra Natura e Uomo in Studio per “La luce della sera” e Studio per “Io sono la risposta”, ambedue del 2022, opere in un certo senso preparatorie del suo ultimo periodo artistico.
Sempre nel grande mondo della contemporaneità, una narrazione post impressionista che non rinuncia al figurale si ritrova nelle opere di Carlo Frisardi, un artista che da qualche anno esprime la propria soggettività attraverso la creazione di corpi amalgamati a uno spazio luminoso ed empirico. Corpi “fatti di luce” come in Entropia (2018) e Mare Nostrum (2020). Figure archetipali in bilico fra passato e presente, forme e corpi simbolici contratte proprio nel rapporto/non rapporto con la realtà naturale, un percorso visivo di forte impatto emotivo grazie anche all’utilizzo di tele di grande formato e nell’indagine di una prospettiva visiva dove l’esterno entra sempre più in contatto – e paragone? – con l’interno del quadro stesso, come evidenziato nell’impatto strutturale e mentale di Io sono perché noi siamo (2023).
Danilo Maestosi, la cui categoria stilistica viene definita: un “diverso” linguaggio interpretativo non- figurale, è uno degli artisti “in qualche modo” in maggiore sintonia, per pensiero e azione, con Ennio Calabria. Di Maestosi Calabria ha scritto: “(…) è dotato di una complessa forma di soggettività – e sulla sua pittura – (…) si fa avanguardia intuitiva, nuova, proprio per la sua vitale necessità di identificare l’inedito significante di sé stessa”. In questa rilevata complessità, infatti, Maestosi costruisce un proprio universo segnico e cromatico, dalla tessitura accurata di Città che brucia (2019), Città che crolla (2019) alla recente La Città e i naufragi (2025). Riprendendo ancora le parole di Calabria: “Maestosi è un pittore dell’”Aura” e non ha mai escluso nel proprio operare il determinante sostegno dell’intelligenza della mano, senza la quale non può esistere la stessa “aura”” e senza la quale non può sopravvivere, riprendiamo dal testo critico di Crescentini, l’“intelligenza della mano” di Maestosi. In questa esposizione, l’artista omaggia il Maestro Calabria con un emozionale opera dal titolo Addio, Ennio.
Nella contaminazione fra pensiero e azione, segno e realtà, un caso interessante è quello dell’opera multi-linguistica e iper-moderna di Nino Pollini, un artista la cui drastica connessione col pluralismo dei linguaggi contemporanei supera il concetto stesso di mutamento e contaminazione. Proprio come nelle opere presentate in questa mostra: Smarrimento (2011), l’enigmatica Adamo selfie mentre il suo presente vola (2016), in cui l’artista sperimenta pigmenti e oli senza rinunciare al ragionamento e all’interconnessione, in un certo qual modo contestataria, col presente. L’arte di Pollini quindi, nell’ambito del rapporto ermeneutico con il Noumeno è da (ri)leggere proprio nella sua libertà illimitata di scelta dei repertori stilistici del passato da utilizzare nel più vasto campo di azione artistica e intellettuale del nostro un po’ stitico contemporaneo come emerge da quello che viene definito un manifesto programmatico del suo ultimo periodo creativo: Homo Humus (2023).
In questo senso, con l’arte di Stefano Piali, ci si trova esattamente agli antipodi.
Scultore e pittore, Piali destreggia con sapienza una metodologia creativa completamente immersa nei valori della storia dell’arte pre-moderna, in estraneità con quella post-moderna. Le influenze specifiche di Michelangelo, Caravaggio, Tiepolo emergono nelle opere di Piali con funzionalità strutturale e con un chiaro gusto post-citazionistico, sintomo di un’immersione totale in un passato mitico, per l’artista, dell’arte, vissuto con suggestione, da vero “artifex”, artigiano dell’arte. Pensiamo in particolare a Grande ala (2018), possente scultura in terracotta, ferro e ottone, oppure al trittico Fuga dalla storia, olio su tela del 2008, simbolo definitivo della semiotica diacronica dell’arte di Piali, oppure a L’Angelo della speranza (2020), senza dimenticare il riferimento ad Ascensione (1998), un vigoroso bronzo selezionato per l’esposizione associata al Ciclo Internazionale d’incontri Imagini Christiane nel biennio 1998-99 e ospitato in esclusiva presso la suggestiva Chiesa della Natività di Gesù dell'Arciconfraternita della Compagnia della Natività (detta degli Agonizzanti) a Roma e, ancora, La porta del dolore (2002) opera presente nella Chiesa del Santo Giovanni di Ciampino (RM). Piali riesce a dialogare con l’ambiente sacro, senza rinunciare alla sua passione segnica per il passato storico-artistico, reinventato dall’artista mediante una concezione che diventa quasi affine alle antropologie dell’arte molto di moda in questi tempi.
Stessa abilità tecnica e iconografia storica che si ritrova, con tutte le dovute differenze e da un altro punto di vista semantico, nell’arte di Vinicio Prizia, curatore di questa interessante mostra.
La sua fonte ideologica, che viene definita “della forma deviata”, crea qualcosa, a prima vista, leggibile a tutti seppur nella tensione destrutturata dei corpi stessi, come nel caso di Concetto anatomico (1985) o nel più recente Giano africano – Giano veientano (2024-25) che conferma una coerenza e unitarietà visiva dell’artista. In questo senso Prizia sembra voler elaborare, con il suo personale Bestiarium che guarda al post umanesimo, uno specifico fondamento etico, sociale e antropologico riferibile anche all’umano. Un’azione di pensiero che indaga molteplici settori del sapere e del conoscere, a partire dalla filosofia, dell’informatica fino alla genetica, alle biotecnologie e all’arte. Tutti questi aspetti Prizia è in grado di assemblare, modificare fisicamente e mentalmente trasformando l’idea di uomo in qualcosa di nuovo, un essere ibrido, umano e non umano, “post human”, dove il corpo umano diventa “oltre”. Quindi, la visione post-umanista delle opere di Prizia, congiunta alla colta abilità tecnica del suo disegno, come nel caso di Presagio (2020) oppure di Origine 2 (2022), prevede una rivisitazione degli schemi interpretativi di stampo umanistico spingendo con forza espressiva verso il raggiungimento di nuove dimensioni strutturali, oltre i confini naturali dell’umanità, per Prizia, in corso di mutazione. La sua opera va letta, senza ombra di dubbio, al di là dello stesso concetto di mostruoso, di orribile per una suggestiva analisi antropica che fonde corpo umano/animale ed elementi ibridi mediante una tecnica disegnativa estremamente raffinata e precisa che, in ultima battuta, finisce per impegnare Prizia in una costante critica serrata, quasi demolitoria, dell’utopia del presente, in vista di un futuro di sicuro meno radioso di quello che pensiamo, speriamo, come si legge nel testo critico di Crescentini. (aise)