Il 43,5% dei nuovi contratti di lavoro sono atipici: Inapp presenta il “Rapporto Plus”

ROMA\ aise\ - La fotografia del mercato del lavoro tra il 2011 e il 2022 propone un’immagine a luci ed ombre. Il confronto temporale evidenzia una forte staticità delle condizioni occupazionali: il 98,9% degli occupati nel 2021 permane in occupazione a distanza di un anno, oltre 13 punti percentuali in più rispetto a quanto si registra osservando le transizioni tra il 2010-2011 (86,5%). Allo stesso tempo coloro che permangono nella disoccupazione a distanza di dodici mesi passano dal 58,4% del 2010-11 al 94,5% del 2021-22. Inoltre, se nel biennio 2010-11 il 10,6% degli inattivi o studenti accedeva al mercato lavoro, a distanza di un decennio questa quota scende allo 0,4%.
È quanto emerge dall’ultimo Rapporto Plus presentato oggi a Roma dall’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) nel corso di un convegno.
L’osservazione dell’andamento dei salari suggerisce uno scenario simile. Le lavoratrici che accedono al mercato del lavoro per la prima volta nel 2022 registrano, rispetto al 2011, un incremento medio della remunerazione pari al 23,4%, incremento che porta, tra le donne alla prima occupazione, la quota di coloro con un salario netto annuo inferiore a 8.000 euro al 15,6% rispetto al 39,2% del 2011. Allo stesso tempo però la componente maschile paga una forte staticità: la condizione retributiva media dei lavoratori che accedono per la prima volta al mercato del lavoro nel 2022 è addirittura inferiore, seppur di poco, a quella registrata nel 2011 (-1,8%).
Il tempo di ricerca di un’occupazione tra gli inoccupati si riduce significativamente tra il 2011 e il 2022, specialmente tra i giovani e gli under 50. Se i 18-29enni nel 2011 attendevano in media oltre 22 mesi per trovare un’occupazione, nel 2022 questa sospensione dall’occupazione si riduce di due terzi attestandosi a 7 mesi. Una riduzione simile interessa anche i 30-49enni anche se con intensità minori specialmente per la componente maschile (da 30 a 24 mesi per gli uomini e da 44 a 12 mesi per le donne). Questo segnale di dinamicità del mercato del lavoro si associa però anche a un significativo aumento di chi ha un titolo terziario tra la popolazione disoccupata e inoccupata: nel periodo osservato, tra i disoccupati la quota di laureati si incrementa di quasi 8 punti percentuali (rispettivamente 9,2% e 17%), mentre tra gli inoccupati la quota addirittura più che raddoppia passando dal 12,8% al 27,9%.
In effetti, un importante nodo riguarda proprio il modo in cui si trova lavoro.
I canali informali e, in particolare le conoscenze, continuano a essere la principale porta d’accesso all’occupazione: amici e parenti, autocandidature sono la via attraverso la quale il 77% di coloro che erano disoccupati e inattivi nel 2021 ha trovato lavoro nell’arco di un anno. L’informalità, tra l’altro, incide anche sull’instabilità del contratto di lavoro: il 43,5% dei nuovi ingressi in occupazione, sempre nello stesso periodo, si concretizza in accordi informali, lavoro intermittente o addirittura nella non conoscenza del contratto (nel 2011 si era al 18,7%), cui si aggiunge un 22,3% (23,8% nel 2011) di occupazioni a tempo determinato. Gli ingressi a tempo indeterminato si attestano sul 30,5% (erano al 26,2% nel 2011).
Una situazione che colpisce in particolare i giovani, soprattutto nel delicato passaggio tra scuola e lavoro. I 18-29enni lamentano soprattutto la scarsa qualità delle offerte di lavoro: per uno su due le proposte sono brevi o sottopagate, per il 37% (che sale al 45% tra i 18-24enni) le proposte prevedono mansioni modeste e a rischio di sotto-inquadramento, mentre il 36,5% dichiara che non ci sono servizi di inserimento al lavoro adeguati e che si è sentito solo nel passaggio tra scuola e lavoro.
Ma i giovani però il lavoro lo cercano e soprattutto attraverso i canali formali: tra il 2020 e il 2022 quasi il 14% dei 18-29enni si è recato presso un centro per l’impiego (contro l’8,2 dei 30-49enni); una percentuale lievemente inferiore (12,6%) si è rivolta alle agenzie di somministrazione di lavoro (7,7% tra i 30-49enni) e più di 1 su 10 si è interfacciato con società di ricerca e selezione del personale (6,4% per i 30-49enni).
E quando i giovani il lavoro lo trovano non sempre sembra essere in linea con il titolo di studio posseduto: circa il 20% dei 18-29enni (13% riferito agli occupati con 50 anni e più e 17% tra i 30-49enni) si percepisce sovra istruito a fronte di un valore medio del 16%.
Questo malessere professionale si traduce anche nel desiderio di lasciare il lavoro, il 19,4% degli occupati tra i 18 e i 29 anni ha pensato di dimettersi. Segnale di un disagio che resta piuttosto diffuso a livello generale interessando il 14,6% del totale degli occupati. Si fugge soprattutto da quei lavori che esigono molto in termini di impegno quotidiano, ma non rendono adeguatamente dal punto di vista retributivo e di sicurezza dell’impiego, così come rispetto alla crescita professionale e alla flessibilità oraria.
Un dato per tutti: l’intenzione di lasciare il lavoro raggiunge il 34% tra chi fa straordinari non retribuiti.
“I cambiamenti intervenuti nelle transizioni lavorative tra il 2011 e il 2022 devono essere valutati considerando l’evoluzione delle tendenze demografiche e le caratteristiche della crescita dell’occupazione nel secondo decennio degli anni 2000”, commenta Natale Forlani, Presidente dell’Inapp. “La riduzione della popolazione in età da lavoro offre una spiegazione al miglioramento dei tempi di inserimento al lavoro dei giovani e dei disoccupati e delle condizioni salariali delle donne. La crescita dell’occupazione in molti comparti del terziario, caratterizzati da rapporti di lavoro a temine, stagionali e part-time, non consente una adeguata valorizzazione dei percorsi scolastici e genera un aumento del disagio lavorativo verso le mansioni che richiedono un elevato impegno quotidiano, ma senza il corrispettivo di retribuzioni adeguate e di sicurezza dell’impiego. Sono criticità che devono essere affrontate con politiche di medio e lungo periodo orientate alla crescita dei salari, al miglioramento delle organizzazioni del lavoro e alla valorizzazione delle competenze dei lavoratori”. (aise)