Indesiderati e discriminati: perché i giovani italiani di origine straniera abbandonano l’Italia - di Luca Di Sciullo

ROMA\ aise\ - V’è un nesso – e se sì qual è? – tra il fallimento “per diserzione” del referendum di riforma della legge sulla cittadinanza, che ha avuto luogo l’8 e il 9 giugno scorso, e l’informazione, tratta da un recente Report dell’Istat, secondo la quale gli espatri degli italiani all’estero hanno raggiunto livelli record (270mila nel biennio 2022-2023: +39,3% rispetto al biennio precedente), coinvolgendo, per ben un terzo del totale (87mila partenze: +53,8% di media rispetto al 2022), giovani di origine straniera diventati italiani per acquisizione?
La risposta è affermativa e sta nel disimpegno generalizzato in tema di integrazione, argomento del tutto rimosso dal dibattito pubblico e politico, sul quale non v’è più alcun apprezzabile investimento strategico.
Oggi in Italia l’integrazione appare normativamente assente, concettualmente fraintesa e operativamente disattesa. Osserviamo ciascuno di questi tre nodi.
L’INTEGRAZIONE RIMPICCIOLITA
Colpisce che un Paese che vanta una storia dell’immigrazione ultracinquantennale non disponga ancora di una legge quadro nazionale sull’integrazione, che fornisca sia il modello – l’idea-guida – di integrazione che intende perseguire, attraverso corrispondenti politiche nazionali e regionali, sia una cornice di riferimento unitaria per gli interventi e le iniziative di integrazione promossi a livello territoriale, in grado di renderli coerenti tra loro e con il modello adottato, a partire da una base minima comune di servizi, risorse e obiettivi.
Ne risulta una mappa “a macchia di leopardo” in cui le Regioni (cui sono demandate le cosiddette “politiche di integrazione”) si muovono in maniera slegata dalle altre, a seconda delle risorse disponibili e degli orientamenti politici nelle Amministrazioni di turno.
Lo stesso concetto di “integrazione”, poi, ha subito un rimpicciolimento semantico. Oggi le politiche “di integrazione” sono per lo più declinate su bisogni essenziali (casa, lavoro, istruzione, salute ecc.) o, nel caso dei titolari di protezione, sui corsi di insegnamento della lingua italiana, orientamento civico, formazione, assistenza legale ecc. impartiti nei pochi mesi di permanenza nei centri Sai, per consentire loro, una volta fuoriusciti, di integrarsi “in autonomia”. L’esito fallimentare di questa gestione della “integrazione” è evidente: emarginazione in ghetti e insediamenti informali che reclamano una “terza accoglienza”.
“INTEGRARSI SPETTA A LORO!”
Nulla di ciò definisce (e tanto meno assicura) l’integrazione, che piuttosto – secondo la felice formula dell’Unione europea – consiste in un “processo biunivoco che parte dal basso”, ovvero che impegna in una co-responsabilità le componenti della società civile (stranieri e italiani congiuntamente) nelle loro concrete inter-relazioni quotidiane sui territori, conferendo allo Stato un ruolo di garante delle condizioni previe di parità di trattamento e di mutuo riconoscimento, affinché tali processi si avviino, piuttosto che di attore diretto. Da questo fraintendimento concettuale è risultata una de-responsabilizzazione della popolazione autoctona verso l’integrazione, il cui onere è stato tutto scaricato sulle spalle dei soli immigrati (“spetta a loro integrarsi!”), compromettendo così ogni autentica integrazione.
La quale conosce infine anche una elusione operativa: la latitanza delle politiche nazionali, infatti, non solo ha delegato alla fantasia e alla buona volontà del Terzo settore l’implementazione di attività di integrazione, mediante progetti finanziati ad hoc (Fami, ecc.), i quali però, essendo temporanei per natura – ed essendo bloccato il passaggio dalle buone prassi, sperimentate nei progetti stessi, alle policy – non incidono strutturalmente; ma, in tal modo, ha favorito l’affermazione di modelli di inserimento che contraddicono la suddetta funzione di garanzia dei processi di integrazione, impedendoli in partenza.
Lungi infatti dal riconoscere pari diritti e dignità alle persone di origine immigrata, assicurando loro un paritario accesso al welfare e al lavoro, si sono sempre più consolidati modelli di subalternità sociale e segregazione occupazionale dei migranti, che li vede strutturalmente subordinati alla popolazione nativa nel riconoscimento dei diritti e nella fruizione effettiva di servizi, beni e opportunità professionali.
L’AUTOLESIONISMO DI UNA NAZIONE
Ora, svuotata di una effettiva integrazione, la stessa cittadinanza si riduce a un conferimento puramente formale, insufficiente di per sé a soddisfare le esigenze di effettivo riconoscimento che i giovani immigrati (o figli di immigrati) avvertono con particolare urgenza, soprattutto se dotati di titoli di alta formazione. Titoli che nella vita reale non vengono apprezzati, neppure dopo che essi siano divenuti italiani, visto che nel resto della società “civile” questi giovani continuano a venire discriminati come una sorta di detentori abusivi della cittadinanza, cittadini “di serie B” rispetto ai “veri” italiani “di ceppo”.
Così mentre questi ultimi, affossando l’ultimo referendum di riforma della cittadinanza, si sono arroccati su una visione ideologica che, sacralizzandola, la considera come un privilegio da difendere da contaminazioni culturali e da “concedere” soltanto come premio per chi dimostri di essersi integrato (assimilato) con le sole proprie forze, i giovani italiani di origine straniera, a fronte di un così gretto e involuto disimpegno nella partita dell’integrazione, lasciano un Paese che non cessa di trattarli come ospiti indesiderati (tra il 2019 e il 2023 sono espatriati ben 192mila italiani 25-34enni, di cui 58mila con un titolo universitario o equivalente). Smascherando tutto l’autolesionismo di una “nazione” che si permette di espellere un capitale umano preparato e di talento nonostante abbia inanellato 5 consecutivi record negativi annui di nascite tra il 2020 e il 2024 e che, invecchiando cronicamente e perdendo ogni anno popolazione, è sempre meno produttivo, innovativo e competitivo. (luca di sciullo*\aise)
* Presidente del Centro Studi e Ricerche Idos