“L’architetto e la città nel secondo dopoguerra”: l’omaggio di Padova a Daniele Calabi

PADOVA\ aise\ - Palazzo del Monte di Pietà a Padova ospita sino al 21 luglio la mostra “Daniele Calabi a Padova. L’architetto e la città nel secondo dopoguerra” a cura di Elena Svalduz e Stefano Zaggia.
La mostra, organizzata dalla Fondazione Barbara Cappochin nella ricorrenza dei vent’anni della Biennale Internazionale di Architettura con l’Università degli Studi di Padova, nello specifico con i dipartimenti dei Beni culturali (Dbc) e di Ingegneria civile edile e ambientale (Icea), è stata realizzata grazie al contributo della Fondazione Cariparo.
In occasione dei sessant’anni dalla morte dell’architetto Daniele Calabi, ebreo in fuga dalle leggi razziali, viene proposta al pubblico con ingresso libero, una mostra che, a partire dalla centralità della figura dell’ingegnere-architetto, indaga il contesto architettonico e urbano di Padova nel secondo dopoguerra. 
“Quando, impostando gli inviti a questa inaugurazione, i grafici mi hanno chiesto cosa indicare accanto al mio nome”, racconta Donatella Calabi, “mi sono chiesta se proporre un titolo accademico, o se più semplicemente non avrei dovuto dire figlia di Daniele Calabi, ma anche madre nobile dei curatori. Che questa sia per me una mostra molto importante da un punto di vista emotivo, prima ancora che come storica, è facilmente comprensibile. Ma vorrei anche sottolineare che alla preparazione di questo evento ha lavorato un gruppo numeroso di persone: da una fotografa agli allestitori, da un professore con i suoi studenti a un giovane esperto di dispositivi multimediali, dai due curatori e una borsista (tre miei allievi) e…perfino il mio adorato nipotino, promettente futuro “regista”. Non vi sembri retorico affermare che, nel primo caso come figlia, nel secondo come “mamma-maestra” di tanti giovani, ho sentito questa iniziativa come un’occasione importante di trasmissione della memoria: a una migliore conoscenza delle difficili esperienze di vita di Daniele Calabi, dei suoi modi di fare architettura, di ciò che riferendosi al “costruire” lui chiamava “il piacere dell’onestà”, della sua attività di docente in aula e in cantiere, che io stessa ho seguito prima della sua scomparsa”.
“L’idea iniziale della mostra è stata quella di evidenziare lo stretto rapporto tra Daniele Calabi (1906-1964) e Padova, proponendo nel contempo una riflessione più ampia sul rapporto che un progettista intrattiene con una specifica città”, spiegano i curatori Elena Svalduz e Stefano Zaggia. L’esposizione è stata concepita come un portale d’accesso alle opere di Calabi in città: saranno infatti proposti itinerari di visita per conoscere e apprezzare un patrimonio diffuso e caratterizzato da una precisa identità, dalla Clinica pediatrica ai condomini, alle case dell’Alicorno e quelle per i professori, tutte realizzate negli anni Cinquanta. È nella città universitaria che il giovane architetto inizia la sua carriera promettente, progettando opere importanti negli anni Trenta del Novecento per l’Ateneo patavino (come l’Osservatorio astrofisico di Asiago). Una stagione interrotta bruscamente dalle leggi razziali del 1938, cui seguirà un esilio in Brasile. Sono le relazioni intessute, le opportunità lavorative, ma anche la predilezione per il peculiare paesaggio storico urbano, a costituire le premesse per il suo ritorno nel secondo dopoguerra. Il percorso in mostra inizia proprio da qui: dalla stagione particolarmente intensa dell’attività di Calabi, svoltasi tra 1950 e 1960 in una città sottoposta a grandi trasformazioni. La mostra non parla solo di edifici: una specifica attenzione è riservata alla vicenda umana del giovane e promettente architetto costretto ad abbandonare i cantieri di cui era responsabile a seguito dell’applicazione delle leggi razziali.
“Abbiamo ritenuto importante evidenziare questo aspetto – concludono i curatori - portato anche nelle aule universitarie nei nostri corsi di storia dell’architettura: nella mostra la scritta “ebreo cancellato” è un forte richiamo a non dimenticare quanto accaduto. Dopo l’esilio in Brasile, Calabi rientra “ammalato di nostalgia per l’Italia” (sono parole di Carlo Anti), con un background moderno, internazionale: porterà, possiamo dirlo, le esperienze brasiliane a Padova. E infatti Padova, accoglie le novità importate dal Brasile, diventando la città a più alta densità di architetture realizzate da Calabi. Eppure, si tratta di opere non sempre note: chi sfoglia in questi giorni la pubblicazione che accompagna la mostra ne riconosce con difficoltà la collocazione. Per questo la mostra propone una lettura delle architetture realizzate e ancora presenti in città non solo attraverso disegni tecnici, esecutivi, schizzi, ma anche attraverso le fotografie di Alessandra Chemollo, che ha realizzato una campagna fotografica ad hoc. Per noi questa mostra è stata un’occasione per fare ricerca: abbiamo lavorato intensamente negli archivi, in particolare in quello storico dell’Università di Padova, dove abbiamo verificato le fonti già note e portato alla luce nuova documentazione. Questo percorso di ricerca si è intrecciato con l’attività didattica dove negli ultimi due anni abbiamo lavorato a fianco di studentesse e studenti con attività laboratoriali di storia dell’architettura e composizione architettonica. Far conoscere al pubblico gli esiti di questo percorso tra didattica e ricerca, sensibilizzare su temi che vanno al di là dell’architettura, è in definitiva l’obiettivo che ci proponiamo di conseguire”.
“Calabi è stato un protagonista dell’architettura moderna del secondo dopoguerra, come attestano anche i numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali che ha ricevuto”, afferma il Presidente di Fondazione Cariparo Gilberto Muraro. “Ha contribuito alla trasformazione urbanistica di Padova in anni cruciali per il suo sviluppo, ridefinendone l’identità. Siamo dunque particolarmente lieti che la sua vicenda umana e professionale venga ricordata e celebrata in un percorso espositivo, ospitato nella sede padovana della nostra Fondazione, che di questa mostra è anche sostenitrice. Nel ringraziare l’Università di Padova e la Fondazione Barbara Cappochin per averla realizzata, il mio augurio è che siano in molti a scegliere di affollare le sale di Palazzo del Monte di Pietà”.
Oltre all’esposizione, la città sarà palcoscenico di due ulteriori sedi per una mostra diffusa che metta realmente in dialogo l’architettura e le persone, obiettivo che da sempre muove gli eventi della Fondazione Cappochin.
“Una mostra che sottolinea l'importanza di valorizzare una figura, come quella di Calabi, a tutto tondo sia dal punto di vista professionale che intellettuale, ma che al contempo consente più in generale di mettere in luce la ricchezza del patrimonio moderno che possediamo e che arricchisce, a fianco a quello storico, le nostre città“, sottolinea Roberto Righetto, presidente dell'Ordine degli Architetti di Padova, tra gli organizzatori della Biennale di Architettura Barbara Cappochin.
“Come è nostra consuetudine”. spiega Giuseppe Cappochin, Presidente della Fondazione di architettura dedicata alla memoria della figlia Barbara, “alla mostra faranno da raccordo una serie di iniziative sparse nella città. A partire dai Tavoli in pietra che troveremo sul Liston di Padova, a cui se ne affiancheranno altri, tra Municipio e Palazzo del Bo, costruiti ad hoc per la mostra di Daniele Calabi”.
Tavoli, anche immaginabili come alcuni lacerti di muro in grado di incarnare le tessiture “calabiane”: così il gruppo di progettazione, coordinato da Edoardo Narne del Dipartimento Icea, ha elaborato frammenti di sei emblematiche opere padovane capaci, nel Dopoguerra, di produrre un effettivo scarto nella produzione architettonica del territorio. E poi, nella volontà di disseminare la mostra stessa nelle vicinanze di alcune sue opere emblematiche, è stata ricercata un’idea espositiva che prevedesse il racconto di più storie all’interno della Corte Ca’ Lando di Padova attraverso altri dispositivi allestitivi. Innanzitutto, quella straordinaria esperienza spaziale della sua propria casa realizzata a San Paolo durante il difficile e sofferto esodo in terra brasiliana: una dimora speciale, da reinterpretare insieme agli studenti del Corso di Ingegneria Edile-Architettura di Padova nei suoi caratteri così ben definiti e realizzata con alcune licenze e inevitabili rivisitazioni dimensionali.
Nelle intenzioni progettuali anche il desiderio di offrire al visitatore una pausa dal fuori al dentro di Ca’ Lando, passando per un ambiente filtro. Addentrandosi al centro della chiesetta il visitatore scopre che ad avvolgere un sistema di sedute in legno sono quattro grandi “arazzi” realizzati in mattoni intrecciati, dispositivi ancora una volta in grado di raccontare la sperimentazione di Calabi, tesa a valorizzare luoghi liminari tra interno ed esterno nelle sue opere: si tratta di gelosie e paramenti recuperati dalla tradizione costruttiva locale e riletti sapientemente, facendo anche tesoro dalle lezioni apprese nei viaggi nel Nord Europa, al cospetto dei maestri scandinavi.
Quella universitaria ha rappresentato per Calabi una città privilegiata, sia dal punto di vista affettivo che compositivo: è stata il teatro delle sue architetture fin dalla fase della formazione ed è stata il “trampolino di lancio” per la sua affermazione professionale. Le relazioni con l’Ateneo patavino e i protagonisti della sua storia tra gli anni Trenta e Quaranta - come ha evidenziato la celebrazione a memoria dell’inaugurazione dell’Osservatorio astrofisico di Asiago del 1942 in assenza proprio del suo progettista, ma anche la predilezione per il peculiare paesaggio storico urbano - costituiscono le premesse per il suo ritorno nel 1950. Questa intima relazione tra Padova e Calabi è stata solo parzialmente indagata nella mostra padovana del 1992 che fu allestita in Galleria Cavour, occasione che ne ha evidenziato l’impostazione biografica.
Gli organizzatori hanno ritenuto opportuno, pertanto, proporre un nuovo progetto espositivo che, pur partendo da quella sistemazione critica, affronti ora una congiuntura storica di particolare interesse come quella del legame delle opere di Calabi con il contesto di una città che nel secondo dopoguerra, tra gli anni 1950 e 1960, conosce una fase di intensa trasformazione.
Quello di Padova si pone come un caso studio di grande interesse sebbene sinora poco affrontato. Sono temi su cui si prevede, inoltre, di sviluppare una serie di iniziative collaterali intese a proporre una riflessione proprio sul rapporto tra architettura e contesto urbano nelle città contemporanee.  
A questo scopo, la mostra è articolata in sezioni, in cui una iniziale sarà orientata ad indagare i caratteri dell’idea di modernizzazione adottata nel periodo, che informava tutte le strategie di rinnovamento e sviluppo economico e sociale della città. Una seconda sezione sarà dedicata a raccontare le prime fasi di formazione dell’architetto, il rapporto con l’ufficio tecnico dell’Ateneo nel corso del IV consorzio, sino all’esclusione in conseguenza delle leggi razziali e l’esperienza dell’esilio in Brasile. Una specifica attenzione sarà dunque riservata alla vicenda umana del giovane e promettente architetto costretto ad abbandonare i cantieri di cui era responsabile. Quando nell’immediato dopoguerra rientrerà “malato di nostalgia per l’Italia” (sono parole di Carlo Anti), il contesto sarà mutato, pronto tuttavia ad accogliere le sue nuove architetture, particolarmente adatte a modernizzare la città.
Nella mostra sono esposti pezzi originali (disegni tecnici, esecutivi, schizzi, fotografie) alternati a pannelli con riproduzioni o elaborazioni di materiali storici di supporto o utili alla contestualizzazione. In questo ambito sarà proposta una lettura delle architetture realizzate e ancora presenti in città, attraverso le fotografie di Alessandra Chemollo esposte in mostra.
L’esposizione sarà accompagnata da una pubblicazione scientifica che offrirà un significativo aggiornamento agli studi. (aise)