“Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo” al Museo Diocesano di Milano con gli scatti di Alessandro Grassani
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MILANO\ aise\ - Quaranta scatti di Alessandro Grassani esplorano i confini del mondo, nei luoghi in cui il cambiamento climatico costringe la popolazione a vivere nella paura e negli stenti. Pastori, agricoltori e pescatori, dalla Mongolia al Kenya, dal Bangladesh ad Haiti, decidono di mettersi in viaggio, senza garanzie e tutele, alla ricerca di territori e futuri migliori. Le loro storie, raccontate visivamente da Grassani, spingono ad aprire gli occhi di fronte a fatti troppo spesso dimenticati, e soprattutto richiamano il senso di responsabilità di ciascuno di noi, chiedendo di non restare indifferenti.
Apre oggi, 18 febbraio, al pubblico al Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano la mostra fotografica “Alessandro Grassani. Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo”, a cura di Denis Curti, che, attraverso una quarantina di scatti, articolati in più capitoli, si focalizza sulla migrazione climatica che condiziona la vita nelle aree rurali e urbane di tutto il pianeta, influenzando le sorti dei loro abitanti, costretti a migrazioni forzate dovute a situazioni ambientali insostenibili.
Dall’estremo freddo della Mongolia alla siccità in Kenya, fino alle inondazioni e all’innalzamento del livello del mare in Bangladesh e Haiti, il fotografo evoca visivamente un futuro prossimo in cui l’umanità lotta per trovare un luogo dove sopravvivere agli effetti del riscaldamento globale, rappresentando in modo diretto ed empatico le sorti delle persone coinvolte.
Protagonisti degli scatti sono pastori, agricoltori e pescatori che appaiono stremati dalle avversità ambientali, costretti a cambiare il proprio stile di vita, spesso tramandato da generazioni, e a trasferirsi nelle città in cerca di mezzi di sussistenza alternativi, destinazioni che spesso deludono le loro aspettative, condannate a infrangersi a causa della mancanza di risorse, competenze e opportunità.
In programma sino al 27 aprile, la mostra, come dichiara Nadia Righi, direttrice del Museo Diocesano, “vuole essere una risposta, parziale ma necessaria, all'appello di Papa Francesco a impegnarsi nella sensibilizzazione nei confronti di un tema delicato e di interesse comune, che non coinvolge solo popoli distanti, ma interessa ognuno di noi. Attraverso le fotografie di Alessandro Grassani diamo voce a persone che soffrono nell'indifferenza generale, la stessa che troppo spesso avvolge il problema del cambiamento climatico, così da stimolare attraverso l'arte la conoscenza di una delle più grandi minacce globali contemporanee, e la partecipazione attiva nel contrastarla”.
Papa Francesco già nel 2015, nella lettera enciclica Laudato si’, sottolineava che “il clima è un bene comune, di tutti e per tutti” e denunciava una generale indifferenza di fronte a tragedie come quelle raccontate nelle fotografie di Grassani. Per il Santo Padre, “non possiamo illuderci di risanare la nostra relazione con la natura e l’ambiente senza risanare tutte le relazioni umane fondamentali”, indicando nell’esperienza di una conversione, di una “trasformazione del cuore”, la via per la cura della nostra casa comune.
“Ho guardato le fotografie di Alessandro con una forte propensione ambientalista”, afferma Denis Curti, curatore della mostra, “e devo dire che, subito, ho spostato la mia attenzione su altro. Da un'attesa documentaria alla sorpresa “umanista”. Alessandro si muove come uno sciamano contemporaneo. Il suo talismano è la macchina fotografica. E il suo è un esercizio inquieto all'interno di un mondo che appare capovolto. L'emergenza climatica vive dentro e fuori ognuno di noi”.
Grassani racconta, per esempio, la storia di Erdene Tuya, 29 anni, mongola, la cui famiglia negli ultimi anni ha perso gran parte dei capi di allevamento a causa del freddo rigido (-50°), immortalando le carcasse degli animali e il contesto di stenti in cui sopravvivono i pastori, alla ricerca dei mezzi per potersi muovere al più presto verso climi più miti.
Contesto opposto in Kenya, dove secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, tra il 2008 e il 2022 sono stati circa 1,7 milioni gli sfollati interni al Paese, in fuga da quell’80% di territorio keniota classificato come arido o semi-arido. Tra loro Rose Juma, 34 anni, che con il marito ha lasciato il villaggio di Amagoru per sottrarsi alle sempre più sanguinose dispute tribali per il controllo dell’acqua e delle terre fertili.
Ad Haiti, la popolazione è invece afflitta da uragani sempre più frequenti, così come dalle piogge devastanti e dalle conseguenti inondazioni, che l’assenza di alberi, dovuta a un’incessante deforestazione, ha reso ancora più pericolose. Lo sa bene Nadie Preval, 28 anni, che Grassani ha ritratto nella baracca dove vive in miseria con la figlia e il marito a Port-au-Prince. Ex contadini, hanno venduto per pochi spiccioli il terreno che possedevano nella campagna haitiana, ormai non più produttivo a causa delle condizioni climatiche avverse.
Spostandosi nelle zone del Bangladesh si trova una situazione molto simile: ogni anno oltre 300 mila bengalesi sono in fuga dalle campagne, inondate e colpite dall’innalzamento del livello del mare e dalla salinizzazione, in direzione Dhaka, capitale del Paese e tra le città in più rapida crescita al mondo, con una popolazione attuale di circa 20 milioni di abitanti. Sovrappopolamento, povertà e un’irreale compenetrazione tra natura e città emergono dagli scatti del fotografo.
Fotografo e giornalista visivo, Alessandro Grassani (1977) inizia a lavorare come fotografo pubblicitario ma sin dall’inizio il suo interesse si sposta verso temi di attualità che nel corso degli anni, lo portano a lavorare in più di 40 Paesi nel mondo: dal Mozambico alla Costa d’Avorio, da Haiti alla Bolivia, dal Myanmar all’Indonesia.
Tra il 2003 e il 200concentrato il suo lavoro in Iran, Israele e i territori palestinesi, documentando eventi come il funerale di Yasser Arafat, lo sgombero degli insediamenti israeliani, l’operazione militare “Summer Rain”, gli effetti del terremoto di Bam. Da allora, torna molte volte sulla situazione degli ebrei-iraniani e su un progetto dedicato alle minoranze etniche iraniane avverse al regime teocratico.
Dal 2011 collabora con il The New York Times e il suo lavoro viene pubblicato da altri media come CNN e TIME. Ha lavorato a numerosi progetti culturali e reportage per organizzazioni come le Nazioni Unite, German Institute for Human Rights e Doctors of the World. (aise)