“1950-1970. La grande arte italiana” è a Torino

TORINO\ aise\ - Il 19 ottobre ha aperto a Torino, nelle Sale Chiablese dei Musei Reali, “1950-1970. La grande arte italiana. Capolavori della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea”, una grande e inedita mostra dedicata ai capolavori dei più importanti artisti italiani del secondo dopoguerra.
L’ingente numero di opere, per un totale di 79, proviene dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ed è riunito insieme per la prima volta fuori dal museo di appartenenza. Un’occasione straordinaria per dare vita a un progetto critico ed espositivo dal forte rigore scientifico e presentare a un ampio pubblico le testimonianze artistiche di una stagione irripetibile.
Prodotta da Musei Reali e Arthemisia con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la rassegna, curata dalla direttrice della GNAM Renata Cristina Mazzantini e dallo studioso Luca Massimo Barbero, è stata fortemente voluta e resa possibile da Mario Turetta, capo Dipartimento per le Attività Culturali del Ministero della Cultura e direttore delegato dei Musei Reali di Torino.
La mostra, oltre a sottolineare il trentennale rapporto che la soprintendente Palma Bucarelli ebbe con un gruppo eccezionale di artisti, mette in risalto la ricchezza delle collezioni del museo romano ed esalta i 21 artisti più rappresentativi che hanno animato una stagione senza precedenti nel panorama dell’arte moderna italiana.
“La mostra vuole mettere in luce la qualità, non sempre sufficientemente percepita, delle ineguagliabili collezioni della Gnam e di porre al tempo stesso l’attenzione sul ruolo da protagonista che la Galleria rivestì nella costituzione del patrimonio artistico italiano moderno e contemporaneo, grazie soprattutto al rapporto attivo che, nei suoi tre decenni al vertice della Galleria, la soprintendente Palma Bucarelli seppe intrecciare con gli artisti più significativi e innovativi di quella così alta stagione, da Burri e Fontana fino a Pascali”, afferma la direttrice Renata Cristina Mazzantini.
Il percorso espositivo mette bene in evidenza le origini di quello che fu un vero e proprio “movimento artistico tellurico”. “È un percorso intenso e, in più sale, è un vero corpo a corpo fra i “nuovi maestri” dell’arte italiana del dopoguerra, della quale si esplorano qui le radici e, per la prima volta, è possibile confrontarli al di fuori della collezione della GNAM”, dichiara Luca Massimo Barbero. “Per l'arte italiana si tratta dei protagonisti germinali, oggi identificati come gli interpreti internazionali dell'allora contemporaneità”.
L’esposizione, suddivisa in dodici sale, si sviluppa in un avvincente percorso che propone confronti e dialoghi intercorsi negli anni del secondo dopoguerra tra gli artisti italiani più importanti, divenuti ormai irrinunciabile riferimento nel panorama artistico internazionale.
La mostra si apre con due lavori simbolici, uno di Ettore Colla Rilievo con bulloni del ‘58/’59 e un altro di Pino Pascali L’arco di Ulisse del ’68; prosegue con una sala di capolavori di Capogrossi, tra cui una monumentale Superficie del 1963. Nella sala successiva viene indagato il tema della materia, elemento di ricerca fondamentale degli anni ’50, mettendo in dialogo due Concetti spaziali-Buchi di Lucio Fontana, tra cui uno del 1949, con lo straordinario “Gobbo” del ‘50 di Alberto Burri, rare opere di Ettore Colla, opere germinali di Mimmo Rotella e la ricerca astratta di Bice Lazzari.
Due sale mettono poi a confronto due maestri dell’astrazione: Afro e Piero Dorazio, maestri che nel secondo dopoguerra contribuirono al successo dell’arte italiana negli Stati Uniti.
Il “cardine della mostra”, come afferma Barbero, si ha nel confronto tra due protagonisti indiscussi: Lucio Fontana e Alberto Burri; 11 emblematiche opere entrano in dialogo e, in particolare, si stabilisce un inedito accostamento tra il Concetto spaziale. Teatrino del 1965 del primo e il Nero cretto G5 del 1975 del secondo.
Il fermento artistico e creativo che si sviluppò a Roma tra gli anni ’50 e ‘60 è rappresentato in mostra da un enorme décollage di Mimmo Rotella del 1957 e, via via, dalle opere storiche di Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Giulio Turcato, Gastone Novelli, Toti Scialoja, Sergio Lombardo, Tano Festa. Un ulteriore inedito confronto si sviluppa tra un intenso monocromo nero di Franco Angeli e alcuni importanti Achrome di Piero Manzoni.
A testimoniare poi l’importanza della Contemporaneità, un’altra sala dedicata all’ormai iconico quadro specchiante I visitatori del 1968 di Michelangelo Pistoletto e un’ulteriore alle celebri “Cancellature” di Emilio Isgrò.
Il percorso prosegue con un emozionante dialogo tra alcune significative opere di Mario Schifano (tra cui Incidente D662 del 1963) e altrettanto straordinari lavori di Pino Pascali (come Primo piano labbra del ’64).
Quest’ultimo, dissacrante artista concettuale, è il protagonista assoluto dell’ultima sala dell’esposizione, che presenta capolavori come Ricostruzione del dinosauro del 1966 e i Bachi da setola del 1968.
“La mostra è il risultato della cooperazione tra due prestigiose istituzioni museali di rilievo nazionale, quali la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e i Musei Reali di Torino”, osserva Mario Turetta. “L’offerta culturale del complesso torinese, dopo le rassegne dedicate al patrimonio archeologico per il 300° anniversario del Museo di Antichità e al sistema dell’arte barocca esemplato dalla pittura del Guercino, si arricchisce di una esposizione che intende rivolgersi a pubblici cosmopoliti, mettendoli in relazione con le principali istanze poste dall’arte contemporanea in uno straordinario periodo storico, in un territorio che si inserisce tra i principali distretti di riferimento grazie a eventi internazionali, quali Artissima e Luci d’Artista, e alla presenza di importanti raccolte, pubbliche e private”.
LA MOSTRA
È la prima volta che un così cospicuo numero di opere realizzate dai grandi Maestri dell’arte italiana del secondo dopoguerra esce dalle sale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ed entra, come un corpus coerente e organizzato, tra quelle dei Musei Reali di Torino. Esse testimoniano, pur nelle talvolta diametralmente opposte modalità espressive, la vivace temperie culturale italiana maturatasi tra gli anni Cinquanta e Settanta, divisa tra le ancora laceranti ferite della guerra e l’entusiasmo necessario alla “ricostruzione”, a cui paratatticamente rispose l’arte contemporanea. Impossibile in questa occasione non sottolineare il ruolo centrale nel dibattito artistico avuto, durante quei decenni, dalla Galleria Nazionale e, di rimando, da Palma Bucarelli, oramai leggendaria direttrice di quell’istituzione, che ne resse le fortune dal 1941 al 1975. Senza citare i vari, già largamente noti episodi, vale comunque la pena citare quelli avvenuti attorno alla congiuntura del 1959, particolarmente sintomatici rispetto all’ accesa controversia tra astrattisti e realisti che coinvolse il mondo artistico, politico e intellettuale italiano. In quell’anno, infatti, l’onorevole Umberto Terracini avviava un’interrogazione parlamentare per conoscere l’importo speso dalla Galleria Nazionale per assicurarsi il Grande sacco di Alberto Burri. A queste provocazioni – reiterate a Bucarelli anche nel 1971 quando un’altra interrogazione parlamentare interessò la Merda d’artista di Piero Manzoni - la direttrice rispose con eleganza e intelligenza aprendo, nel marzo dello stesso anno, un convegno intitolato Rinnovamento delle arti in Italia e il contributo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che, invitando a parlare i più eminenti critici del tempo, pose il museo romano al centro di un dibattito fattivamente costruttivo in merito all’accesa querelle tra astrattisti e figurativi che la politica, invece, stava svuotando di significato. Questa ferrea volontà e convinzione verso le ragioni della contemporaneità portarono poi nel 1968 a inaugurare, da parte di Palma Bucarelli, uno degli allestimenti più noti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che è ancora oggetto di studio da parte della museologia e che aveva nelle sale monografiche dedicate ad Alberto Burri, Lucio Fontana, Ettore Colla e Giuseppe Capogrossi uno dei suoi momenti principali. Questi artisti, infatti, furono in qualche modo i ‘campioni’ della modernità dell’arte italiana del secondo dopoguerra, punto di avvio di infiniti altri filoni di ricerca che, talvolta, arrivarono a confutare del tutto le tesi di partenza su astrazione e informale – motivo per cui proprio le loro opere aprono la presente esposizione. Ma come si è voluto dimostrare nell’articolazione di questa mostra, le collezioni della Galleria Nazionale e le sue politiche di acquisizione non si cristallizzarono con il 1968. Già l’anno successivo, infatti, con l’ingresso di Lux9 di Nicolas Schoffer e l’allestimento di ben quattro ambienti dedicati all’arte cinetica e programmatica – nelle quali è impossibile non rilevare l’influenza di Giulio Carlo Argan, con il quale Bucarelli si confrontava fin dagli anni di studio – la Galleria Nazionale provocò la reazione di artisti attivi nella Capitale, critici rispetto alle ricerche di matrice gestaltica come Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Gastone Novelli, Mimmo Rotella, Tano Festa o Giulio Turcato. A questi artisti nella presente esposizione è dedicato ampio spazio, proprio a testimonianza di quel particolare milieu culturale capace di generare una ‘nuova mitologia’ dell’arte italiana -, come anche di Piero Dorazio e Luigi Boille che, platealmente, il 28 marzo 1968 rimuovevano le loro opere dalle pareti per donarle agli studenti di Valle Giulia accusando la Galleria Nazionale di voler nascondere “sotto un velo di apparente modernità [...] un ordine che è sempre lo stesso”. Anche se in opposizione, però, quello con questa nuova generazione di artisti non fu una chiusura, bensì un dialogo – Dorazio stesso, più tardi, ammise “che l’unico critico a quell’epoca che cercasse di capire l’importanza di quanto facevamo e dicevamo era Palma Bucarelli” – che sapeva far propri i vocaboli più nuovi dell’arte e configurarsi come un vero e proprio laboratorio del contemporaneo. La Galleria Nazionale, prima di qualsiasi museo nazionale, fece infatti entrare nelle sue sale i quadri specchianti di Pistoletto, le corrosive critiche al potere costituito di Franco Angeli, le provocazioni di Piero Manzoni e, a meno di un anno dal suo tragico incidente in motocicletta, l’opera di Pino Pascali. Il suo lavoro chiude significativamente la presente mostra anche in virtù dell’essere stato un punto di avvio per quella situazione artistica che si riconobbe nella definizione di Arte Povera, che ebbe proprio qui, a Torino, un suo luogo d’elezione – con un’importante monografica grazie alla quale Bucarelli poté celebrare anche la capacità anti-museale che era riuscita a costruire all’interno della Galleria Nazionale, capace di smentire ed invalidare il “culto reverenziale dell’oggetto d’arte fatto per l’eternità”. Così, il percorso di questa mostra vuole consegnare al pubblico di oggi coloro che furono i Nuovi Maestri dell’arte moderna e contemporanea italiana, internazionalmente riconosciuti e capaci, attraverso la loro opera, di segnare profondamente il XX secolo.
Prima sezione – Capogrossi
Se durante gli anni Trenta la pittura di Giuseppe Capogrossi (Roma, 7 marzo 1900 – Roma, 9 ottobre 1972) si inscriveva a pieno titolo nell’alveo della pittura figurativa, a partire dal 1948 – e con la sua grande rivelazione pubblica nel 1950 attraverso una personale dell’artista presso la Galleria del Secolo di Roma in cui queste opere furono svelate – il pittore romano abbracciò definitivamente le ragioni dell’arte astratta. Ciò che contraddistingue l’opera di Capogrossi dall’approccio materico di Alberto Burri e dall’idea spaziale di Lucio Fontana fu la scoperta del suo caratteristico ‘segno’ che, definito talvolta dalla critica come un pettine o una forchetta, egli fu capace di modulare in infinite combinazioni. Senza mai tradirlo, infatti, il ‘vocabolo’, la singola ‘lettera’ da lui trovata, venne elaborata in tutte le maniere possibili. Ingrandendola, riducendola, stilizzandola, deformandola e mettendola in costante relazione con lo sfondo e la superfice pittorica. La novità radicale della pittura di Capogrossi lo fece ben presto assurgere al ruolo di grande protagonista internazionale dell’arte astratta. Dopo essersi fatto conoscere attraverso una serie di fondamentali mostre, dal 1958, infatti, il pittore romano veniva rappresentato negli Stati Uniti da Leo Castelli – il grande gallerista che promosse l’opera di Andy Warhol, Lichtestein e Rauschenberg – e, nello stesso anno, per interessamento diretto di Palma Bucarelli la GNAM acquistava Superfice 207 e, l’anno successivo, Superfice 335 - riunite entrambe in questa occasione - formando il primo nucleo di opere di Capogrossi del museo romano; accresciuto nel corso degli anni fino a divenire una delle più significative raccolte di opere di Capogrossi.
Seconda sezione – Gli Anni Cinquanta. Materia, meccanismo e astrazione
L’utilizzo di materiali non convenzionali alla pratica della pittura accademica, di riciclo, poveri o industriali innerva l’espressione artistica di tutti gli autori esposti in questa sala; coinvolti da quel clima di rinascita e ricostruzione che, pur tra le ancora aperte ferite della Seconda Guerra Mondiale, in Italia avviò un dialogo tra cultura umanistica e conoscenza tecnica, negli stessi anni promossa dal “poeta ingegnere” Leonardo Sinisgalli tra le pagine de “La civiltà delle macchine”. È attraverso questa chiave che è dunque possibili leggere opere come gli “ingranaggi” realizzati da Capogrossi in Superficie 456 e Genesi di Ettore Colla (Parma, 16 aprile 1896 – Roma, 28 dicembre 1968), nella quale l’utilizzo di scarti industriali evoca la possibilità di fondere armonicamente arte e industria, sottolineando il ruolo centrale della tecnologia nella società moderna. L’utilizzo di materiali poveri e industriali animò anche l’opera di Alberto Burri (Città di Castello, 12 marzo 1915 – Nizza, 13 febbraio 1995), che assieme a Colla, Capogrossi e Mario Ballocco fondò nel 1950 il Gruppo Origine, tra le più significative esperienze dell’informale italiano. In Burri, tuttavia, l’utilizzo di sacchi di juta, plastiche, catrami e metalli diveniva lo “schermo” su cui riflettere la drammatica condizione esistenziale dell’uomo. Ricerca, quella materica, che innervò anche il lavoro di Bice Lazzari (Venezia, 15 novembre 1900 – Roma, 13 novembre 1981) durante il suo periodo informale, utilizzando assieme alla pittura a olio materiali quali la calce o la polvere di cemento (Superficie LSR 4) per consegnare a questi ultimi nuova dignità estetica e ottenere, come dichiarato dall’artista stessa, “una vibrazione di luce dalla quale non potevo rinunciare”. Infine, Mimmo Rotella (Catanzaro, 7 ottobre 1918 – Milano, 8 gennaio 2006), la cui ricerca – prima che negli anni Sessanta iniziasse a comprendere anche la figura, dando un significato nuovo alla sua poetica attraverso le sue opere più famose – si mosse interamente nell’alveo della materia, e della quale la GNAM conserva alcuni fondamentali episodi. Nel suo caso, però, essa veniva presa direttamente dal vissuto quotidiano attraverso il “rito della lacerazione dei manifesti pubblicitari” che, nelle sue più estreme conseguenze – visibili, ad esempio, in opere come Astratto. Lo Spirito di Dharma -, gli permetteva di ottenere quella che egli definiva “una patina gialla o giallastra”, una “geografia da diluvio” che non si affidava all’estetica “ma all’imprevisto, agli stessi umori della materia”.
Terza sezione – Afro Basaldella
Afro Basaldella (Udine, 4 marzo 1912 – Zurigo, 24 luglio 1976) fu una figura cruciale per intendere il rapporto tra la pittura italiana e il contesto dell’arte contemporanea internazionale. Già nel 1950, infatti, Afro si trovava a New York per collaborare, grazie all’intercessione dell’amico Corrado Cagli, con la Catherine Viviano Gallery, passando da una pittura neocubista a quella astratta proprio grazie all’incontro, negli Stati Uniti, con l’Espressionismo astratto americano, dal quale apprese gli automatismi legati alla gestualità della pittura. Ma la pittura di Afro rimase sensibilmente europea poiché, definita come espressione del “lirismo astratto”, in essa persisteva un vago ricordo dell’immagine, mai descritta, ma sempre evocata; spesso nei suggestivi titoli che l’artista diede alle sue opere. All’inizio coinvolta da valori luministici e tonali, ottenuti attraverso virtuosistiche velature (Ombra bruciata), nel corso degli anni Sessanta Afro accentua la componente gestuale (Il castello), per giungere, nel corso del decennio successivo, agli esiti ultimi della sua pittura in opere come il Grande ocra, dove le diverse tonalità sono racchiuse in campiture nette, come fossero tarsie. Una riappropriazione dell’istanza costruttivista dove il gesto, che precedentemente era stato liberatorio, diviene ora trattenuto e controllato.
Quarta sezione – Piero Dorazio
Nel secondo dopoguerra, in Italia, si sviluppò un intenso dibattito tra arte figurativa e astratta. Da un lato i figurativi, legati a una tradizione realista e impegnata politicamente come Renato Guttuso e il gruppo Corrente. Dall’altro gli astrattisti, concentrati su un'arte più concettuale e internazionale che cercava di superare i limiti della rappresentazione realistica ed esplorare nuove dimensioni spaziali e formali. Piero Dorazio (Roma, 29 giugno 1927 – Perugia, 17 maggio 2005) fu uno dei protagonisti più attivi all’interno di questo dibattito. Dopo una breve parentesi nel gruppo Arte Sociale e la frequentazione dello studio di Guttuso, infatti, già nel 1947 l’artista romano figurava tra i primi firmatari, assieme a Giulio Turcato e Carla Accardi, del gruppo Forma 1; il quale si proponeva di conciliare l'astrattismo con l'impegno politico attraverso una sintesi tra ricerca formale e valori sociali. A questa fondamentale esperienza seguì, nel 1950, l’apertura della libreria-galleria L’Age d’Or, che, unendosi nel 1951 al Gruppo Origine, diede vita a una serie di iniziative volte, come esplicitato da loro stessi, a “educare l’uomo moderno, attraverso il mondo visivo dei suoi giorni, alla coscienza della sua natura nel proprio tempo”.
Parallela alla vicenda biografica di Dorazio si mosse, chiaramente, anche la sua maturazione artistica. Natura morta del 1947, ad esempio, riflette in maniera esatta gli esordi astratti del pittore, ancora in qualche modo ancorato, specialmente nel titolo, a un’idea di soggetto che, però, viene sublimato in una serie di linee e forme astratte. Quasi all’opposto Phantazo, realizzata del resto venticinque anni più tardi (1972) e il cui titolo perde ogni attinenza a una realtà tangibile per richiamare un’idea di visione, immaginazione e apparizione. È, anche nella forma, un quadro molto differente da quelli realizzati durante gli esordi astratti di Dorazio, composto da vivide fasce di colore che, intersecandosi, creano una trama che sembra emergere e dissolversi simultaneamente, affidandosi completamente a stesure nette di colore puro.
Quinta sezione – Alberto Burri/Lucio Fontana
Sebbene Alberto Burri e Lucio Fontana abbiano condiviso entrambi l’ambizione di rompere con la tradizione artistica precedente, essi paiono a tratti diametralmente opposti nella loro poetica. Se Burri indagò la realtà della materia, per Fontana essa rappresentò solamente un mezzo utile per proiettare l’opera verso una diversa dimensione spaziale. Ciò fu certamente dovuto a una diversa sensibilità e visione del mondo - legata all’intima compassione per la sofferenza umana quella di Burri, proiettata ottimisticamente verso il futuro e intenta ad esplorare nuove dimensioni spaziali quella di Fontana – che può trovare parziale risposta nelle diverse biografie dei due artisti.
Nato in Argentina, Lucio Fontana (Rosario, 19 febbraio 1899 – Comabbio, 7 settembre 1968) compie i suoi studi in Italia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Artista già rivoluzionario e di fama, tra il 1940 e il 1947 egli fece andò temporaneamente in Argentina, da dove ritornò portando con sé il noto Manifesto Blanco – testo ove erano stati postulati, ancora in nuce, i precetti della successiva rivoluzione spazialista – assieme a nuove, sorprendenti idee. Nel 1949, infatti, Fontana stupì il pubblico presentando il suo primo ambiente spaziale, una concrezione di oggetti informali resi fluorescenti dall’uso di lampade di Wood che fu, come dichiarato dall’artista, “il primo tentativo di liberarsi da una forma plastica statica”. Parallelamente agli ambienti, egli andò elaborando la serie dei Buchi, una ricerca radicale che, iniziata quell’anno, come visibile nel Concetto spaziale del 1959 esposto in questa sala lo accompagnò per un lungo periodo. L’atto di bucare la tela, come dichiarato da Fontana, rappresentava “la scoperta del cosmo e una dimensione nuova. È l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita”. Tuttavia, osservando opere come Concetto spaziale del 1957, composto da concrezioni di sabbia e polvere di vetro, o le Nature, poste al centro di questa sala, in Fontana non mancò un ragionamento attorno alla materia. Eppure, essa non fu mai tragica ed esistenziale come in Burri, ma attiva e vitalistica. Nelle Nature, inoltre, è possibile vedere in maniera chiara il ‘gesto’ dell’artista: il buco e il taglio. E se dell’atto di bucare si è già data spiegazione, affascinante pare il fatto che il taglio compaia simultaneamente, nel 1959, sia nelle Nature, sia nelle Attese, la serie certamente più nota di Fontana. Esse, val tuttavia la pena sottolineare, furono introdotte dall’artista nel suo corpus di opere solo quando egli aveva oramai sessant’anni, rappresentando l’esito ultimo di una ricerca decennale che ispirò in maniera profonda tutta una serie di giovani artisti che ne tributarono l’esplicito debito.
Nato a Città di Castello, la formazione di Alberto Burri fu totalmente aliena a quella artistica, essendosi egli laureato in Medicina. La scelta di dedicarsi alla pittura avvenne solo più tardi durante circostanze drammatiche; ovvero la sua prigionia, durata ben 18 mesi presso il campo di Hereford in Texas, dove si trovava a seguito della cattura in Africa settentrionale da parte delle Forze Alleate. Rientrato in Italia nel 1946, la prima mostra personale di Burri si tenne nel luglio 1947 presso la galleria La Margherita di Roma, dove espose opere ancora figurative e vagamente tonali. Le ragioni dell’astratto furono abbracciate da lui in maniera radicale solo nel 1948 in opere dove gradualmente la materia cominciava a prendere il sopravvento sull’organizzazione formale della composizione. Da lì in avanti, Burri si addentrò sempre di più nella comprensione delle possibilità espressive della materia attraverso l’uso, visibile nelle opere qui riunite, di legni, ferri, juta, catrami e ritrovati moderni come le plastiche, il cellotex o materiali vinilici, sui quali l’artista interviene tormentandoli e lasciandovi tracce e segni che, la critica, ha spesso accostato alla sua carriera medica definendole come lacerature, saturazioni o cauterizzazioni. Egli conobbe immediata comprensione della sua poetica, non solo in Italia, ma a livello internazionale già nel 1953. Quell’anno veniva invitato a tenere una serie di mostre tra Chicago e New York, fino ad essere presente assieme ad Afro e Capogrossi - unici altri italiani - a The new decade. 22 European painters and sculptors, fondamentale esposizione organizzata nel 1955 al MoMA per la quale l’artista rilasciò una delle rare dichiarazioni in merito alla sua poetica: “Le parole non mi aiutano quando cerco di parlare della mia pittura. È una presenza irriducibile che rifiuta di essere convertita in qualsiasi altra forma di espressione. È una presenza al tempo stesso imminente e attiva. È questo il suo significato: esistere per significare ed esistere per dipingere. [...] la pittura per me è una libertà raggiunta, costantemente consolidata, custodita vigorosamente per trarne il potere di dipingere di più”.
Sesta sezione – Mimmo Rotella, Giosetta Fioroni, Sergio Lombardo, Tano Festa
Nella Roma tra gli anni Cinquanta e Sessanta, coinvolta dall’entusiasmo del boom economico, la “dolce vita” di Via Veneto e le colossali produzioni di Cinecittà, all’interno del suo vivace ambiente artistico e culturale iniziò a concretizzarsi attorno ad alcuni giovani artisti quello che Giorgio De Marchis, tra i primi critici ad accorgersi del fenomeno, definì “un particolare modo di procedere basato sul prelievo e sulla manipolazione quasi oggettuale di immagini tratte o trovate nel contesto culturale che ci circonda, riconoscendo in esso un carattere di realtà formulata linguisticamente [...] per recuperare la possibilità di una comunicazione visuale oggettiva”. Grande bacino di queste immagini tratte o trovate nel contesto culturale che ci circonda erano in quegli anni i nuovi media e l’attualità filtrata dalla televisione, dal cinema, dai rotocalchi e dai quotidiani; sistemi di comunicazione che andarono a definire una “nuova mitologia” che modificò radicalmente gli immaginari collettivi. Ciò venne percepito in maniera acuta e repentina da artisti come Giosetta Fioroni (Roma, 24 dicembre 1932) (Roma, 1° dicembre 1939) citando cinema, televisione e moda, e da Sergio Lombardo (Roma, 1° dicembre 1939) e Tano Festa (Roma, 2 novembre 1938 – Roma, 9 gennaio 1988) integrando fotografia e attualità quale nuovo diffuso media all’interno della loro pratica pittorica. Infine, Mimmo Rotella - già osservato precedentemente per la sua componente materica – che contestualmente al suo ingresso assieme a Yves Klein tra la compagine dei Nouveaux Réalistes, immetteva nella sua opera la figura. Era, però, una ‘figura’ tratta direttamente dai muri, strappata dalle réclame e dalle locandine cinematografiche (Mitologia 3; Senza titolo) poiché – dichiarava l’artista – lo strappo era “la sola compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazione favolose”.
Settima sezione – Carla Accardi
Le opere qui esposte testimoniano la carriera pittorica di Carla Accardi (Trapani, 9 ottobre 1924 – Roma, 23 febbraio 2014), dai suoi avvii incentrati sulla riduzione cromatica e segnica di Composizione del 1950, fino all’automatismo di Un filo d’erba del 1964, nella quale il ‘segno’ indagato precedentemente non viene rinnegato, ma diventa auto generativo. Questa maturazione, del resto, segue le vicende biografiche di Accardi. Nata a Trapani e diplomatasi all’Accademia di Palermo, Accardi nel 1947 fonda il Gruppo Forma 1 - assieme, tra gli altri, a Piero Dorazio, Giulio Turcato e Antonio Sanfilippo, che sposa nel 1949 - proclamandosi “formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili”, in un particolare periodo storico nel quale il PCI dichiarava la sua aperta avversione verso l’astrattismo perché sentito come un’arte elitaria e distante dalla realtà sociale e politica del proletariato. La vicenda biografica di Accardi, del resto, fu segnata a lungo dall’impegno politico, figurando, ad esempio, tra le fondatrici, assieme a Elvira Banotti e Carla Lonzi, del gruppo Rivolta Femminile, tra i primi collettivi femministi organizzati e coordinati in Italia. Per via della sua centralità, Accardi è divenuta negli ultimi decenni una figura centrale per comprendere il percorso artistico del secondo dopoguerra. La sua opera, infatti, ha attraversato con coerenza tutte le esperienze dell'arte contemporanea. Abbandonato il gruppo Forma1, a partire dagli anni Cinquanta entra in contatto con il gruppo milanese del Movimento Arte Concreta, opponendosi all'astrazione lirica a favore di un orientamento strutturalista e geometrico, mentre nella seconda metà degli anni Sessanta Accardi si avvicina all'Arte Povera e recentemente, il suo lavoro è stato celebrato con grandi mostre antologiche che ne hanno riaffermato l'importanza storica e artistica.
Ottava sezione – Gastone Novelli, Giulio Turcato, Toti Scialoja
I confronti presenti in questa sala mostrano artisti che ridefinirono, pur in continuità con le ricerche precedenti, i confini dell’astrazione attraverso maniere talvolta inaspettate, aprendo al contempo a ciò che elaboreranno le più giovani generazioni di cui questi artisti furono maestri. Valga, come esempio, il caso di Toti Scialoja (Roma, 16 dicembre 1914 – Roma, 1° marzo 1998), insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Roma a figure quali Carlo Battaglia, Mario Ceroli, Pino Pascali e Jannis Kounellis, che spesso lo hanno ricordato come importante guida per il loro percorso artistico. Nella sua attività pittorica, Scialoja fu interessato dal rapporto tra automatismo e gestualità; con possibili interessanti riscontri all’interno della sua opera poetica. Ma se in Scialoja pittura e scrittura rimasero sempre distinte, nell’opera di Gastone Novelli (Vienna, 1° agosto 1925 – Milano, 22 dicembre 1968), invece, queste si fondevano tra loro (Poetry Reading tour). Tra i più importanti esponenti italiani di un nuovo modo di intendere l’arte visiva, Novelli faceva collimare nella sua pittura scritte e segni che non erano né figurativi, né puramente astratti, ponendosi come ponte tra realtà e immaginato. Infine, Giulio Turcato (Mantova, 16 marzo 1912 – Roma, 22 gennaio 1995), esponente prima del Gruppo Forma 1 e, successivamente del Gruppo degli Otto - di cui rappresentò probabilmente l’anima più sperimentale – fu interessato a portare avanti le ricerche espressive date alla pittura con la scoperta dei nuovi materiali non convenzionali, spesso oggetti quotidiani, abituali e consueti, giungendo a nuovi inaspettati esiti. Se opere come Composizione con tranquillanti e Ricordo di New York integrano nella tela farmaci, carta copiativa e polveri, in Composizione (Superficie lunare) Turcato interviene anche sulla superficie che doveva accogliere la pittura, evocando il suolo del satellite attraverso una stesura minima di acrilico su di un materiale industriale come la gommapiuma.
Nona sezione – Franco Angeli a confronto con Piero Manzoni
“Mi incuriosivano i Catrami [di Burri], con il loro nero su nero e m’interrogai spesso sulla possibilità di lavorare su un unico colore: scoprii in tal modo che anche un quadro monocromo non è poi di un “solo colore” ma al contrario può avere una superficie dinamica, movimentata da variazioni, trasparenze, se la stesura è data in modi differenti”. Così si esprimeva Franco Angeli (Roma, 14 maggio 1935 – Roma, 12 novembre 1988) pensando a un momento germinale e d’esordio della sua produzione pittorica, di cui fanno parte lavori come Elementi negativi – qui esposto in mostra -, Indifferenza o Disumano; opere esistenziali che, come esplicitato dall’artista stesso, pescavano a piene mani dalla lezione materica della pittura dell’epoca. Eppure, la possibilità di lavorare su un unico colore di queste tele non può essere sottovalutata nella sua volontà di indagare l’opera anche in quanto meccanismo di percezione, poiché quest’opera, come gli Achrome di Piero Manzoni con i quali è posta in dialogo, si distanzia da una mera scelta monocromatica in favore di un’assenza di colore proiettando l’opera verso la sua reificazione. Non appare certamente un caso, infatti, se Disumano fu riprodotta tra le pagine di “Azimuth” – rivista fondata da Enrico Castellani e Piero Manzoni che fu testimonianza e punto di avvio di alcune delle più radicali scelte dell’arte contemporanea italiana - quale testimonianza di amicizia tra questi artisti e di una circolarità di idee che univa Roma a Milano e le indagini di questi giovani pittori al panorama internazionale.
Morto a soli ventinove anni, la figura di Piero Manzoni (Soncino, 13 luglio 1933 – Milano, 6 febbraio 1963) fu non solo in diretto contatto con le più avanzate esperienze europee, ma fu una tra le figure più rivoluzionarie dell’arte italiana. Di ciò si accorse immediatamente Palma Bucarelli che, nel 1968, scriveva alla madre dell’artista scomparso per poter far entrare alla GNAM i quattro Achrome qui esposti, espressione – come dichiarato dalla direttrice all’allora Ministro dell’Istruzione – di “uno dei più dotati artisti delle nostre giovani generazioni, già ben noto come esponente della più vivace avanguardia e la cui scomparsa è stata una grande perdita per l’arte italiana”. Avveduta e fine, del resto, fu la scelta da parte di Bucarelli di concentrarsi proprio sugli Achrome, uno dei momenti fondamentali nella poetica di Piero Manzoni. Essi sono una serie di opere realizzate a partire dal 1957, caratterizzate dall’assenza totale di colore e dall’uso di materiali semplici come caolino, gesso, tela grezza, fibra di vetro, e cotone. Queste superfici monocrome e lasciate neutre si concentrano sulla materia stessa, un intervento concettuale dell’artista per esprimere la loro natura artificiale. Essi rappresentano il tentativo di Manzoni di eliminare qualsiasi espressione soggettiva, gesto o significato imposto dall’artista, per lasciare spazio alla pura presenza del materiale. Il termine Achrome significa appunto ‘senza colore’ e suggerisce una riflessione sull’arte come oggetto autonomo, che esiste al di là di qualsiasi simbolismo o interpretazione emotiva. In questo modo Manzoni propone una radicale messa in discussione dei tradizionali canoni estetici e concettuali dell’arte, portando all’estremo la riduzione formale e concettuale.
Decima sezione – Michelangelo Pistoletto
Tra gli esponenti più noti dell’Arte Povera, biellese di origine e legato intimamente nelle sue vicende espositive e artistiche alla città di Torino, Michelangelo Pistoletto (Biella, 25 giugno 1933) è universalmente conosciuto per i suoi Quadri specchianti. Meno note, invece, le origini di questa fondamentale serie di opere, che ebbero la loro genesi quando l’artista, durante la seconda metà degli anni Cinquanta, ancora aiutava il padre nella sua attività di restauro e sperimentava varie tecniche pittoriche. Impegnato a produrre una serie di autoritratti a cui, insistentemente, cercava di dare uno sfondo anonimo e uniforme, nel 1961, dopo aver steso sulla tela uno spesso strato di vernice sotto ad uno sfondo nero, si accorse di come esso riflettesse l’ambiente circostante anziché risultare opaco, dando vita alla serie di autoritratti conosciuta con il nome di Presente. Fu così che Pistoletto avviò una riflessione sulla differenza tra l’immagine immutabile della rappresentazione pittorica e quella, invece, in costante mutamento che apparteneva alla realtà. “La conclusione” – spiega l’artista stesso – “è stata la sovrapposizione del quadro allo specchio: la pittura si sovrappone e aderisce all’immagine della realtà [...] l’invadenza fisica del quadro nell’ambiente del reale, portando con sé le rappresentazioni dello specchio, mi permette di introdurmi tra gli elementi scomposti della figurazione”.
In questa sede sono esposti due fondamentali pezzi della serie dei Quadri specchianti. I visitatori in particolare, entrato nelle collezioni della GNAM nel 1969, oltre a differenziarsi da Un giovanotto per il fatto che le due figure sono realizzate su velina dipinta a olio, anziché essere una semplice stampa fotografica, venne ideato proprio per gli spazi della Galleria Nazionale. I due visitatori, la superfice specchiante su cui si riflettevano le opere della GNAM e l’osservatore, che guardava sé stesso tramite lo ‘specchio’ che è l’opera di Pistoletto, infatti, apriva a riflessioni sulle relazioni tra l’opera, il museo e la sua fruizione.
Undicesima sezione – Mario Schifano (Homs, 20 settembre 1934 – Roma, 26 gennaio 1998)
“Erano gli anni dell’Informale [...] O uno andava nelle strade e guardava i cartelloni pubblicitari, o andava nelle gallerie a vedere i quadri informali. Stranamente” – raccontava Mario Schifano – “per me e altri pittori era quello che si trovava all’esterno delle gallerie che ci solleticava”. Dopo le prime sperimentazioni di carattere informale, infatti, Mario Schifano – figura che, più di altre, fu destinata a segnare un fondamentale cambio di passo per la pittura italiana – arrivò nei primi anni Sessanta a formulare i Monocromi, nel suo caso una declinazione del tutto personale alla tendenza all’azzeramento pittorico che caratterizzava molte ricerche di quegli anni. I monocromi di Schifano erano sempre delineati da un sottile tratto nero dagli angoli smussati, evocazione di uno schermo cinematografico o televisivo; uno spazio vuoto, pronto ad accogliere nel periodo immediatamente successivo lettere, numeri, immagini e scritte pubblicitarie, in un ulteriore riavvicinamento della pittura ai segni della vita moderna. Queste, tuttavia, entrarono nello ‘schermo’ di Schifano solamente dopo il suo primo viaggio a New York nel 1962, momento fondamentale per la sua carriera grazie all’esperienza diretta con quella temperie culturale e un’attenzione nuova rispetto ai nuovi media. In Incidente D662, ad esempio, la raffigurazione viene depurata da qualsiasi pathos o dramma, richiamando la distanza emotiva che i mass media introducono quando trattano notizie drammatiche, riducendole a semplici immagini ripetute e consumate. Distanza e alienazione che coinvolgono anche Paesaggio versione anemica con smalto e anima, evocazione di un paesaggio che appare distante e poco vitale, ‘anemico’ proprio perché filtrato, già riprodotto e visto, messa in discussione la relazione dell'individuo con l'ambiente circostante.
Negli stessi anni, a Roma, prendeva forma la breve e folgorante carriera artistica di Pino Pascali, a cui è dedicata interamente la sala successiva. In questo ambiente, però, le opere di Schifano sono poste a dialogo con Primo piano labbra dell’artista pugliese, rimando anch’esse al nuovo mondo massmediale, all’aggressività, in questo caso, delle pubblicità rivolte al pubblico femminile che, in quegli anni, cominciavano a puntare sull’eros attraverso l’uso del primo piano cinematografico e l’occhio televisivo. Anticipando ricerche di poco successive espresse, ad esempio, nel Cavalletto o nell’Arco di Ulisse - entrambi del 1968 – Pascali non affrontava qui solo il tema della trasformazione dei corpi in oggetti di consumo, ricercando allo stesso tempo l’elemento atavico, archetipico e ancestrale che, come una sineddoche, doveva descrivere il tutto attraverso l’uso di una singola parte.
Dodicesima sezione – Pino Pascali
L’opera di Pino Pascali (Bari, 19 ottobre 1935 – Roma, 11 settembre 1968), giunta sulla scena italiana con forza dirompente, trovò tra le mura della GNAM immediata comprensione attraverso la prima retrospettiva dedicata all’artista nel 1969, l’anno successivo alla sua tragica scomparsa a soli trentatré anni. Oltre a questo, però, attraverso la sua opera Pascali riuscì ad unire idealmente Roma e Torino. Dopo essersi cimentato con successo come scenografo e pubblicitario – alcuni suoi memorabili spot andarono in onda su Carosello -, le prime due mostre personali dell’artista furono: quella tenuta nel 1965 presso la galleria romana La Tartaruga, le cui opere esposte - tra cui Ruderi sul prato e Labbra in questa occasione in mostra - Cesare Brandi poneva in catalogo “alla fine dell’Informale e all’esplosione della Pop Art”; e, l’anno successivo, quella allestita presso Galleria Sperone di Torino, nella quale l’artista presentò la fondamentale serie delle Armi, “oggetti dati in proprio” – li definì il già citato Brandi – “estratti dal flusso dell’utensilità”. La ricerca di Pascali, tuttavia, andò ben oltre la ricerca oggettuale, approcciando un gioco ambiguo tra arte, rappresentazione e natura. È il caso, ad esempio, dei Bachi da setola, una delle più note sculture di Pascali. In essa l’artista indagava il rapporto tra natura e realtà industriale rappresentando, attraverso materiali artificiali e seriali, figure animali. Il gioco ambiguo ottenuto attraverso i materiali, del resto, è presente anche nel titolo, finemente ironico nel voler confondere ancor di più l’osservatore non mettendolo in grado di comprendere se l’artista avesse voluto interpretare la natura attraverso il materiale acrilico, o se sia invece il materiale industriale a essere sublimato nell’essere vivente. Gioco ambiguo, quello di Pascali, portato a estreme conseguenze nella Ricostruzione del dinosauro, dove la trasformazione di materiali quali la tela grezza trattata a vinavil e caolino in forme organiche diviene, in realtà, ‘ricordo fossile’ di queste ultime, avviando un articolato percorso concettuale che rendeva ancora più sottile la differenza tra le due categorie. Non solo la natura, però, interessò l’orizzonte di Pascali. Opere come il Cavalletto, L’arco di Ulisse o il Cesto, ad esempio, traslano l’attenzione dall’elemento naturale a quello mitico e arcaico, ricostruendolo attraverso l’uso di supporti industriali come la lana d’acciaio e materiali acrilici. Ciò avvicina in qualche modo Pascali all’Arte Povera, situazione artistica a cui l’artista effettivamente prese parte figurando nella prima mostra del movimento che conobbe la propria consacrazione pubblica nella famosa esposizione intitolata Conceptual art Arte povera Land art tenutasi, nel 1970, presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. (aise)