ItaloAmericano.org/ Ricordando Joe Petrosino, eroe italo-americano – di Teresa Di Fresco

SAN FRANCISCO\ aise\ - “Chissà com’era il tempo alle 20:45 quel venerdì 12 marzo 1909 a Palermo. Alcune persone si trovavano al capolinea del tram a Piazza Marina e il panico si impossessò di loro quando il fragore di quattro spari si diffuse nell’aria. Alcuni scapparono, altri rimasero immobili. Uno soltanto, un marinaio anconetano sbarcato dalla Regina Nave Calabria, di nome Alberto Cardella, si precipitò verso la villa Garibaldi, da dove erano giunti gli spari, per fare in tempo a vedere un uomo accasciarsi lentamente a terra mentre due figure fuggivano con la complicità del buio. Le pallottole che avevano colpito l’uomo: una al collo, due alle spalle e quella mortale alla testa non gli lasciarono scampo. I soccorsi intervenuti non poterono salvargli la vita. Quell’uomo che rispondeva al nome di Joe Petrosino era un poliziotto, il primo appartenente all’arma a essere ucciso dalla mafia”. Ne scrive Teresa Di Fresco sull’ItaloAmericano.org, magazine diretto da Simone Schiavinato.
“Era in missione “top secret” dagli Stati Uniti ma il New York Herald, a causa di una fuga di notizie, pubblicò tutti i dettagli della trasferta. Petrosino, confidando nel fatto che a Palermo la mafia, come anche a New York, non osava uccidere un poliziotto, non volle rinunciare alla missione. Purtroppo si sbagliò. Il suo obiettivo di volere sconfiggere la Mano Nera che egli aveva capito benissimo aveva radici a Palermo, fu stroncata dal vile assassinio quel 12 marzo che gli tolse la vita appena quarantanovenne.
“Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire”. Con queste parole il Console americano a Palermo comunicò al suo governo, attraverso il telegrafo, dell’esecuzione mafiosa.
Giuseppe Petrosino era nato il 30 agosto 1860 a Padula in provincia di Salerno, in Campania. Figlio di Prospero, sarto, che era riuscito a fare studiare i quattro figli maschi – fra i pochi nel paese – affinché sapessero leggere e scrivere, con l’aiuto di un istitutore, nel 1873 emigrò con la famiglia e dopo una traversata, durata venticinque giorni, a bordo di una nave, approdò a New York dove crebbe nel quartiere di Little Italy. Come primogenito sentiva la responsabilità di non pesare economicamente anzi di dover contribuire al bilancio dei genitori, dei fratelli e delle due sorelle. Giuseppe iniziò a seguire corsi serali per imparare la lingua inglese e contemporaneamente cominciò a lavorare facendo prima lo strillone, vendeva cioé giornali per strada; poi facendo lo sciuscià, cioé il lustrascarpe, finché nel 1877, già si faceva chiamare Joe, ottenne la cittadinanza statunitense. L’anno seguente fu assunto come netturbino e presto divenne caposquadra.
Il 19 ottobre 1883 si arruolò nella polizia di New York e la placca d’argento che aveva sulla divisa, all’altezza del petto, portava il numero 285. Una breve gavetta come agente di pattuglia nella 13a Avenue e poi, grazie alla sua capacità, intelligenza, professionalità e fiuto, iniziò ad assumere cariche più importanti.
Intanto cominciavano, numerosi, ad arrivare emigranti italiani. Agli inizi del 1906 Joe Petrosino, divenuto poliziotto capo dell’Italian Branch, la squadra italiana di agenti incaricati di sgominare l’organizzazione dedita a un racket generalizzato, la cosiddetta Mano Nera, consegnò il suo rapporto al direttore del Dipartimento di Polizia della sua città, che così recitava: “Gli Stati Uniti sono diventati lo scarico dei rifiuti di tutta la criminalità e il banditismo italiano, in particolare della Sicilia e della Calabria…adesso vivono prosperosamente di estorsioni, rapine, traffici illeciti di ogni sorta”.
Conoscendo e sapendo parlare nei vari dialetti italiani riuscì, dopo aver ricoperto l’incarico di impiegato di pattuglia, a far parte dell’ufficio investigativo dove assunse la carica di sergente-detective. I colleghi, precedentemente, non gli risparmiarono delle frecciatine, delle battutine proprio a causa del suo cognome, Petrosino, che è la forma dialettale, nel meridione d’Italia, di prezzemolo; per di più il fisico non l’aiutava: non era particolarmente alto o atletico. Era, in compenso, molto intelligente e questo lo aiutò nel suo lavoro.
Sconfiggere la mafia, allora conosciuta con il nome Mano Nera, era il suo scopo, il sogno del poliziotto venuto dall’Italia, onesto e buon padre di famiglia -era sposato e aveva una bambina – che si era perfino guadagnato la stima del Presidente degli Stati Uniti. E nel 1895 è lo stesso Roosevelt, suo grande amico, a nominarlo Sergente e quando nel 1905 viene promosso Tenente, gli viene affidato il comando dell’Italian Legion che aveva principalmente il compito di occuparsi della Mano Nera. Con travestimenti, imprese spregiudicate fu in grado di assicurare alla giustizia, come nessuno prima di lui era riuscito a fare, boss ritenuti intoccabili, inavvicinabili, imprendibili. Ebbe anche la grande intuizione che la mafia americana avesse uno strettissimo legame con quella siciliana e riteneva che per colpirla bisognava partire dalla Sicilia. Per questo motivo decise di venire in gran segreto a Palermo – finanziato dai banchieri Rockfeller e J.P.Morgan – dove alloggiò all’Hotel de France situato in quella stessa piazza dove fu ucciso. Il segreto non era stato mantenuto: la notizia del suo viaggio a Palermo, con altre informazioni, era stata data dal New York Herald!
Petrosino, che aveva avvertito il venticinquesimo presidente USA, William McKinley, dell’attentato per ucciderlo che era stato progettato nei suoi confronti e che poi fu eseguito da un giovane anarchico il 6 settembre 1901 durante l’Esposizione Panamericana a Buffalo, New York, ma non fu ascoltato; lo stesso Joe che aveva risolto nel 1903 il caso del “delitto del barile” così detto perché il cadavere della vittima, Benedetto Madonia, fu trovato fatto a pezzi dentro un barile; egli che fu ricevuto dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti e che gli regalò un orologio d’oro e che dopo era andato a trovare il fratello Michele che aveva lasciato l’America per ritornare in Italia. Lo stesso che il 12 marzo 1909 venne a morire a Palermo, colpito alle spalle da due assassini che riuscirono a fuggire.
L’autopsia fu eseguita dal Dottor Giovanni Liguori il 14 marzo e fu determinante per la conferma della causa della morte: era stato ucciso da colpi di arma da fuoco. Gli assassini non furono mai ufficialmente identificati nonostante il governo avesse posto su di loro una cospicua taglia.
Ebbe due funerali di stato: uno a Palermo il 19 marzo e uno a New York il 12 aprile. Si dice che circa 250.000 persone parteciparono alle esequie.
Una targa, in memoria, si trova a Palermo, sulla cancellata che circonda il giardino Garibaldi di Piazza Marina, dove cadde colpito da quattro proiettili sparati da mano mafiosa. Nel 150° anniversario della nascita le poste hanno emesso un francobollo commemorativo. Doverosi tributi al grande e celebratissimo, ancora oggi, in due continenti, Tenente Giuseppe Petrosino, detto Joe”. (aise)