La voce di New York/ All’ONU il panel che studia il giorno dopo l’Apocalisse nucleare – di Stefano Vaccara

Foto Nazioni Unite/DB

NEW YORK\ aise\ - “Per la prima volta al Palazzo di Vetro, si è riunito il gruppo internazionale di scienziati per discutere degli effetti di una guerra nucleare. È l’Independent Scientific Panel on the Effects of Nuclear War, istituito con la risoluzione A/RES/79/238 adottata dall’Assemblea Generale lo scorso dicembre. Il mandato? Produrre entro il 2027 un rapporto completo sugli effetti fisici e le conseguenze sociali di un conflitto atomico su scala locale, regionale e planetaria”. Ne scrive Stefano Vaccara, fondatore del quotidiano online “La voce di New York” ora diretto da Giampaolo Pioli.
“Alla conferenza stampa che ha seguito la prima riunione, l’elenco dei partecipanti dava già il tono interdisciplinare del lavoro. In collegamento virtuale c’erano Andrew Haines, professore di Environmental Change and Public Health alla London School of Hygiene and Tropical Medicine; Togzhan Kassenova, Senior Fellow al Centre for Policy Research dell’Università di Albany; e Peter Klimek, direttore del Supply Chain Intelligence Institute Austria e docente di Science of Complex Systems alla Medical University di Vienna. In sala, invece, hanno risposto alle domande dei giornalisti Ana María Cetto, fisica dell’UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico); Ausrele Kesminiene, visiting scientist all’International Agency for Research on Cancer (IARC/OMS); e Sébastien Philippe, professore associato di Nuclear Engineering & Engineering Physics all’Università del Wisconsin-Madison.
A dare il segnale politico è stata l’Alta Rappresentante ONU per il Disarmo, Izumi Nakamitsu, che ha partecipato alla riunione del gruppo ricordando come la minaccia nucleare “non conosca confini” e vada affrontata in modo “olistico e interdisciplinare”.
Il mandato del panel è impressionante: analizzare non solo gli impatti immediati (vittime, radiazioni, distruzione urbana) ma anche gli effetti a cascata su sanità pubblica, agricoltura, ecosistemi, catene di approvvigionamento e stabilità sociale. Un lavoro che mancava da oltre quarant’anni, quando gli studi sugli “inverni nucleari” scuotevano la coscienza internazionale.
Durante il Q&A, abbiamo posto una domanda provocatoria: non è forse pericoloso dare l’impressione che serva ancora uno studio per capire cosa significherebbe una guerra nucleare? Non sappiamo già, da Hiroshima e Nagasaki, che la civiltà umana non sopravviverebbe a un conflitto atomico tra potenze con armi mille volte più potenti di quelle usate nel 1945? Non basta la celebre frase di Einstein – che la quarta guerra mondiale si combatterà con le clave – per convincere che non serve nessuna verifica ulteriore?
Gli scienziati hanno accolto la provocazione, ribadendo che “filosoficamente” nessuno dubita che una guerra nucleare sarebbe un disastro assoluto, ma hanno spiegato che la ricerca serve a dimostrare con dati aggiornati come le tecnologie moderne e i cambiamenti climatici, sociali ed economici abbiano modificato il quadro. “L’ultimo studio del genere è di 40 anni fa – ha ricordato uno dei membri – e oggi viviamo in un mondo tecnologicamente ben diverso, interconnesso e allo stesso più fragile”. Inoltre i panelisti hanno sottolineato la neccessità di informare le nuove generazioni che non hanno vissuto la coscienza del pericolo di un conflitto nucleare come quelle cresciute durante la Guerra Freddda.
La presenza di figure come Masao Tomonaga, medico sopravvissuto a Nagasaki e oggi tra i membri del panel, aggiunge un valore simbolico: la memoria vivente di chi ha visto con i propri occhi gli effetti della bomba si unisce agli strumenti scientifici più avanzati per dire al mondo che la minaccia non è un fantasma del passato.
Ci resta un pensiero inquietante: se le Nazioni Unite chiedono oggi un rapporto aggiornato sugli effetti di una guerra nucleare, significa che l’incubo non solo non è archiviato, ma anzi torna al centro dell’agenda, con un avvertimento implicito a chi detiene le armi atomiche. La paura, da sola, non basta più: ora serve scienza per documentare, persuadere e, speriamo, spingere alla prevenzione”. (aise)