La Voce di New York/ Italiani brava gente: un film per ricordare Giado, lager per gli ebrei in Libia - di Luciana Capretti

NEW YORK\ aise\ - “Scrittura fitta, inchiostro spesso sbiadito, macchie di muffa, pagine unite da nastri su buchi fatti a mano. In copertina il titolo “Giado, campo di concentrameto”, in italiano, una “n” mancante. Lo ha scritto un giovane 21enne, di nascosto, di notte, senza luce, neppure la moglie che gli dormiva accanto sapeva, neppure gli altri prigionieri affollati nella stessa baracca immaginavano, la sua famiglia lo ha scoperto solo dopo la sua morte”. Come scrive Luciana Capretti in un articolo pubblicato sul portale di informazione bilingue La Voce di New York, si tratta di “un diario prezioso perché racconta un campo di concentramento, Giado, in Libia, poco distante dal confine con la Tunisia, in mezzo al deserto, di cui poco si sa.
Non sono rimasti documenti sul campo, come se le autorità italiane avessero voluto cancellare nella sabbia le loro responsabilità nella persecuzione degli ebrei, e sono poche le testimonianze orali dei sopravvissuti, che tutto desideravano fuorché ricordare la sofferenza.
Ma da un cassetto è riapparso il diario di Yosef Dadush, ebreo italiano di Bengasi sopravvissuto e trasferitosi poi a vivere con la moglie in Israele. Il figlio Shimon lo ha fatto tradurre in ebraico e pubblicare, “The Hidden Diary of Giado Concentration Camp” (Yedioth Ahronoth Books), la nipote Sharon Yaish lo ha trasposto in un film documentario, “Giado”, presentato al New York Jewish Film Festival.
Realizzato insieme a Golan Rise e prodotto da Hagar Alroey, il film racconta la storia di Yosef e della giovane moglie Bruria, ma insieme il destino dei 2600 ebrei libici trasferiti da Tripoli e Bengasi nel campo di Giado.
Le leggi razziali promulgate da Mussolini nel ’38 non cambiarono molto la vita degli ebrei in Libia: Italo Balbo, allora governatore della colonia, era cosciente del fatto che gran parte dei commerci e istituzioni erano nelle loro mani e togliergli incarichi e proprietà avrebbe leso l’economia locale. Ma nel febbraio del ’42, Mussolini ordinò lo “sfollamento” degli ebrei prima dalla Cirenaica, poi dalla Tripolitania, nel campo di Giado. Gli ebrei con passaporto francese o inglese subirono una sorte diversa: i primi trasportati in Tunisia per essere poi trasferiti in Francia, i secondi in Italia per finire nei campi di concentramento nazisti.
Giado era una ex caserma italiana a 235 chilometri circa a sud di Tripoli, recintata da filo spinato a poco distanza da un villaggio berbero. Gli ebrei furono rinchiusi in 10 baracche, 400 persone in ognuna, spazi limitati, segnati da corde o coperte, un lungo pezzo di legno con dei buchi come latrina, niente porte, i bisogni in pubblico, niente acqua, nessuna igiene, cibo ridotto al minimo. In poco tempo arrivarono le pulci e venne rasata la testa a donne e bambini, poi arrivò il tifo.
Yosef scrive che i malati andavano in infermeria dove gli veniva fatta una iniezione, dopo due giorni morivano. Era la soluzione finale dei fascisti, iniezioni letali. Una infermiera ebrea che doveva somministrarle lo capì, racconta il documentario, e iniziò a farle nel materasso: qualcuno così si salvò. Gli uomini sopra i 18 anni lavoravano 12 ore al giorno, le donne vedove o sole subivano spesso violenze dalle guardie, cinque militari italiani agli ordini di un maggiore, con l’aiuto di alcuni ascari libici.
In questa situazione a Yosef e Buria nasce una bimba, Ada, dai bellissimi occhi azzurri, due mesi dopo si ammala e portata in infermeria, subisce anche lei l’iniezione letale.
Nulla di tutto ciò Yosef racconta ai figli nati poi in Israele, vuole dimenticare, dimentica anche l’italiano, chiude il diario in un cassetto, non permette a nessuno di aprirlo. Ma la storia va conosciuta e ricordata. E questo documentario ci ricorda che in Libia i fascisti hanno allestito vari campi di concentramento, per i libici ribelli e per gli ebrei. A Giado sono morte 562 persone”. (aise)