La Voce di New York/ Tsunami democratico nella notte elettorale, da New York alla California – di Massimo Jaus


NEW YORK\ aise\ - “È stata una notte elettorale che ha preso forma lentamente. Una tornata in cui la geografia politica è cambiata all’improvviso, quasi di sorpresa, spostando equilibri che sembravano fissati da anni. E quando lo spoglio si è fatto chiaro, la scena è apparsa inequivocabile: i democratici hanno vinto, in modo diverso e con motivazioni diverse, ma hanno vinto ovunque. Unico denominatore comune è stata l’opposizione alla politica di Trump, come era stato anticipato dalle manifestazioni di No Kings Day, partecipate da quasi 8,5 milioni di persone in tutti gli Stati Uniti”. Ne ha scritto nelle scorse ore Massimo Jaus, sulle pagine de “La Voce di New York”, quotidiano italiano attivo nella grande mela diretto da Giampaolo Pioli.
“A New York, nel New Jersey, in Virginia, e persino nel cuore dell’Ohio, a Cincinnati, hanno vinto progressisti e moderati, outsider e volti navigati, donne che hanno scritto una prima volta nella storia e giovani che hanno rovesciato dinastie politiche. E lo hanno fatto in una notte in cui Donald Trump è rimasto in silenzio, osservando da lontano città in cui aveva deciso di intervenire personalmente, giocando la carta della minaccia, dell’allarme e dell’ego. Il suo silenzio, per una volta, è stata la notizia.
A New York, la vittoria di Zohran Mamdani segna un passaggio d’epoca. Trentaquattro anni, figlio di immigrati ugandesi di origine indiana, musulmano, socialista democratico, attivista diventato assemblyman di Queens, Mamdani è riuscito a trasformare un discorso che sembrava confinato ai margini della politica cittadina in una proposta di governo maggioritaria. Ha parlato dei problemi di New York: del costo della vita, degli affitti divenuti insostenibili, della sensazione di essere schiacciati in una città che chiede molto e restituisce sempre meno. Ha bussato porta a porta, quartiere per quartiere, soprattutto tra giovani, precari, immigrati, e quella parte ormai vasta della città che non si riconosce più nel racconto ufficiale dell’ottimismo urbano. La sua vittoria contro Andrew Cuomo, uomo-simbolo di un’era di potere verticale e compromessi strutturali, è una sconfitta netta dell’establishment democratico di New York. E non c’è stata interferenza presidenziale che abbia cambiato il corso delle cose. Trump aveva appoggiato Cuomo apertamente, definendo Mamdani un “comunista” e minacciando di tagliare i fondi federali alla città se avesse vinto. Gli elettori hanno risposto che la paura non è più un programma e alle rune il vantaggio del candidato democratico-socialista è stato di 9 punti sull’ex governatore. Anni fa Trump diceva che avrebbe potuto uccidere una persona lungo la Quinta Avenue e che nessuno lo avrebbe condannato. Oggi, se lo facesse, la fila per portarlo in tribunale sarebbe chilometrica.
In Virginia, l’atmosfera era diversa ma il risultato racconta una storia complementare. Abigail Spanberger, ex agente della CIA, politica moderata e pragmatica, ha vinto la corsa a governatrice, diventando la prima donna a ricoprire quella carica nello Stato. Ha battuto Winsome Earle-Sears, vicegovernatrice repubblicana, legata e sostenuta dal movimento MAGA e dal suo progetto di smantellamento del settore pubblico. La campagna era stata costruita da entrambi i lati attorno a un’unica domanda: cosa conta di più, l’ideologia o la vita quotidiana? La risposta è arrivata dalle urne: contano i salari, il prezzo dei generi alimentari, gli affitti, le cure mediche. Contano ciò che si tocca. Spanberger non ha parlato al Paese dei simboli; ha parlato al Paese che deve pagare una bolletta.
Lo stesso è accaduto nel New Jersey, dove Mikie Sherrill ha vinto la corsa a governatrice con una campagna che ha promesso continuità, stabilità amministrativa e la difesa dell’Obamacare. E nello stesso momento, in un’altra città simbolica dell’America industriale, Detroit ha eletto Mary Sheffield, la prima donna sindaca della sua storia: un’altra frattura, un altro capitolo aperto.
Persino nell’Ohio profondo, dove molti analisti ritenevano che il vento fosse ormai stabilmente repubblicano, Aftab Pureval è stato rieletto sindaco di Cincinnati, battendo Cory Bowman, pastore e imprenditore, fratellastro del vicepresidente J.D. Vance. È difficile immaginare una metafora più chiara dell’incapacità di Trump di trasferire il proprio carisma ai candidati che sostiene. Il suo nome pesa, ma non cambia i voti.
A Detroit, la presidente del City Council Mary Sheffield è diventata la nuova sindaca, la prima donna a guidare la città, battendo il reverendo Solomon Kinloch, pastore molto popolare.
In California, i risultati preliminari danno già per passato il referendum sulla Proposition 50 per ridisegnare i distretti elettorali. La proposta del governatore Gavin Newsom fa così guadagnare cinque nuovi seggi elettorali ai Democratici della Camera in vista delle elezioni di Mid Term del 2026.
E allora, cosa dice questa notte? Non racconta un ritorno al trionfalismo democratico, né la vittoria di un’unica identità politica. Racconta invece una cosa più semplice e più profonda: gli elettori hanno punito l’eccesso, l’alzata di voce, la guerra permanente, il linguaggio della minaccia, la politica della divisione. Hanno premiato chi, da sinistra o da centro, ha parlato del costo della vita, della dignità del lavoro, della qualità delle scuole, della sicurezza che non ha bisogno di essere gridata. Hanno premiato chi sembra voler governare, non punire.
È stata una notte blu, sì. Ma soprattutto è stata una notte in cui l’America ha chiesto di respirare. Una politica che torna concreta, quotidiana, persino gentile. E per questo, paradossalmente di questi tempi, molto più radicale”. (aise)