Messaggero di Sant’Antonio/ America, mito e illusione – di Alessandro Bettero

PADOVA\ aise\ - ““La storia della grande emigrazione degli italiani negli Usa è un vero e proprio romanzo popolare che ha riguardato intere generazioni, e ha segnato in profondità le vicende dei due Paesi”. Ne sono convinti Mario Avagliano e Marco Palmieri, autori del saggio Italiani d’America - La grande emigrazione negli Stati Uniti (il Mulino, pagg. 552)”. Ne scrive Alessandro Bettero sul “Messaggero di Sant’Antonio – edizione per l’estero” di febbraio.
“Consultando un’enorme mole di fonti: lettere, diari, testimonianze, documenti ufficiali, Avagliano e Palmieri hanno indagato le cause che spinsero milioni di italiani a emigrare nel Nuovo Mondo, i loro sogni e le loro aspirazioni in quella stagione epica e drammatica che va dal 1870 al 1940, evidenziando il ruolo cruciale delle donne: mogli, madri, sorelle in quella sofferta diaspora che le portò a misurarsi con pregiudizi e stereotipi oltre Atlantico, ma anche a emanciparsi dalle condizioni economiche, sociali e culturali da cui avevano cercato di affrancarsi partendo con le loro famiglie.
Un processo lungo e complesso, non privo di rischi e, spesso, di cocenti delusioni. Gli italiani che emigravano dal Sud fuggivano dalla miseria e dalla disperazione. La mancanza di prospettive riuscì in molti casi ad anestetizzare anche il dolore dello sradicamento. Purtroppo il lavoro nei campi non dava frutti così generosi da poter sostentare i contadini e le loro famiglie.
“L’Italia, infatti, era alle prese con una profonda crisi economica e sociale – ricordano i due autori – e il compimento del sogno risorgimentale non era valso a migliorare la situazione delle classi meno abbienti, specie della gran massa di contadini meridionali, anzi il bilancio del nuovo Stato pativa il peso degli sforzi fatti per raggiungere l’unità nazionale ed ereditava le grandi difficoltà nei conti pubblici degli Stati preunitari. Fu in questo contesto che nacque il sogno americano. Oltreoceano gli italiani cercavano lavoro e fortuna, in un Paese dove tutto era ignoto, ma di cui prendeva a circolare e a diffondersi un autentico mito. Non a caso nel linguaggio comune fare la Merica è diventato un modo per dire arricchirsi e fare fortuna”.
Il saggio racconta tutte le tappe di questo romanzo popolare: dalla scelta sofferta di partire, al viaggio in nave, dall’arrivo negli Stati Uniti al duro contesto sociale, economico e lavorativo che avrebbe atteso gli emigranti, dalle difficoltà nell’integrazione fino alle storie di successo di quelli che ce la fecero.
Ma quale America trovarono gli italiani al di là dell’Atlantico? Gli Stati Uniti di allora, come traspare anche da alcuni brani di lettere drammatiche citate nel libro, non erano certo l’oleografico Bengodi che l’America stessa aveva (e ha sempre) consegnato all’immaginario collettivo, e da cui quei migranti erano stati sedotti prima ancora della partenza dall’Italia. Un po’ come avviene oggi per chi approda in Italia.
“La stragrande maggioranza degli emigranti italiani che arrivarono negli Stati Uniti sbarcarono a New York, mentre un numero inferiore scelse come destinazione Boston, Philadelphia, Baltimora, New Orleans e San Francisco – rammentano Avagliano e Palmieri –. Fino al 1892 a New York il punto di smistamento degli emigranti era Castle Garden. In seguito, sotto la pressione di una nuova imponente ondata di emigranti provenienti da tutta Europa, venne aperta una stazione d’arrivo più funzionale a Ellis Island. Ed è qui che, dopo l’emozione della vista della Statua della Libertà dai ponti delle navi, dopo viaggi lunghi e spesso burrascosi, avveniva il primo impatto con il Nuovo Mondo”.
Gli italiani sbarcavano accompagnati da pregiudizi e razzismo. Ma gli Stati Uniti stavano vivendo una fase di forte crescita industriale e demografica, e avevano bisogno di una grande massa di manodopera da sfruttare.
“Gli italiani andarono a ingrossare le fila dei lavoratori non qualificati, impiegati nelle mansioni più umili e faticose. Erano considerati manodopera di second’ordine, adatta a lavori pick and shovel (piccone e pala) che non richiedevano competenze o capacità tecniche, ed erano esclusi dalle categorie con retribuzioni più alte, nei grandi cantieri stradali e ferroviari, dove rimpiazzavano irlandesi, tedeschi e scozzesi che li avevano preceduti; nelle miniere di ferro, rame e carbone, dove diventarono il gruppo nazionale più consistente; nell’edilizia, nei lavori per la costruzione delle metropolitane nelle grandi città, nella costruzione di fognature, nello scavo di tunnel e nello scarico merci dalle navi, spesso come lavoratori stagionali. Solo successivamente passarono a lavorare nell’industria, come in quella dell’abbigliamento a New York, Chicago e Philadelphia, negli stabilimenti tessili a Patterson e Lawrence, in quelli metalmeccanici del New England e nella lavorazione dei sigari in Florida””. (aise)