Messaggero Sant’Antonio/ Marcinelle, il dna della memoria - di Giorgia Miazzo

PADOVA\ aise\ - “L’8 agosto 1956 un terribile incidente avvenuto nella miniera belga del Bois du Cazier a Marcinelle, vicino a Charleroi, in Belgio, costò la vita a 262 minatori. Di questi, 136 erano italiani, emigrati in Belgio secondo le direttive del Protocollo italo-belga del 1946. Nel 2019, il professor Michele Cicora ha avviato un’iniziativa, conclusasi l’anno scorso, volta all’esumazione e al riconoscimento delle 14 salme non identificate dopo l’incidente, e sepolte nel cimitero di Marcinelle. Il suo obiettivo era di poter riconoscere, tra queste, suo padre Francesco, morto nel disastro minerario del ’56. Francesco era nato il 1° novembre 1908 a San Giuliano di Puglia (Campobasso) in Molise”. Ad intervistare Cicora è stata Giorgia Miazzo per il “Messaggero di Sant’Antonio – edizione per l’estero” di luglio – agosto.
D. Lei aveva 4 anni quando ha visto suo padre per l’ultima volta. Ha qualche ricordo personale di lui? Chi le ha raccontato la storia di suo padre?
R. Non ricordo assolutamente niente. Dovessi sognarlo, non so se lo riconoscerei perché anche le poche foto sembrano diverse. L’ultima volta che tornò, fece delle foto, ma non con tutta la famiglia insieme. Ho sempre detto che mio padre l’ho cercato per tutta la vita, perché mi è mancato per tutta la vita. Ricordo che in una delle lettere che lui scrisse a mia madre, disse: “Mi sono fatto tante risate quando mi hai detto che Michelino mi cerca nelle buste delle lettere quando arriva la mia posta”. Quando leggevo queste cose non potevo non ricercar lo, non potevo non fare qualcosa per ritrovarlo. Per chiudere il cerchio. Ritrovare mio padre, per me è come tornare alla vita che mi è mancata quando ero bambino.
D. Come e quando nasce in lei l’idea di questo progetto?
R. Nei primi tempi, durante le visite non sapevo dell’importanza del significato di quelle lapidi con su scritto inconnu (sconosciuto, ndr): vedevo queste lapidi ma non sapevo che cosa fossero fino a quando, intorno al 2010, mi fu spiegato dal direttore del Bois du Caizer. Fino a quel momento noi eravamo convinti che mio padre fosse ancora in fondo alla miniera. Non c’è mai stato detto ufficialmente che tutti i minatori erano stati recuperati e che quelle 14 tombe erano dei minatori non identificati. È da lì che è nato in me un seme.
D. Ci sono stati minatori non recuperati?
R. La versione ufficiale è che tutti i corpi sono stati ritrovati. Il 4 aprile 2023 c’è stata una conferenza stampa per annunciare i risultati dei test dei dna, e l’indomani si è tenuta una cerimonia molto commovente: i funerali con tutte le quattordici bare nella chiesa di Marcinelle, durante i quali ho provato sentimenti contrastanti: la delusione perché mio padre non era stato identificato, ma anche la grandissima soddisfazione di vedere davanti alle rispettive bare le famiglie dei due minatori identificati. Alla conferenza stampa erano presenti tutti i media del Belgio. Erano stati invitati anche la Rai e l’Ansa di Bruxelles, ma hanno declinato l’invito, chiedendo soltanto informazioni per fare un comunicato stampa il giorno successivo. Invece in quel momento sarebbe stato importante che la televisione fosse lì. Recentemente è stata identificata anche una terza vittima.
D. Suo padre, ogni quanto poteva tornare a casa?
R. Tendeva a tornare quando c’era da fare qualche lavoro nei campi come la semina e il raccolto, ma non durante i periodi di festa. Infatti, non ho nessuna idea di cosa significhi trascorrere il Natale insieme a tutta la famiglia, prima perché non c’era lui, poi perché un mio fratello andò in Venezuela. Infatti, in uno dei biglietti, un altro mio fratello, di cinque anni più grande, scrisse a papà: “Noi tutte le feste le passiamo da soli, siamo tristi”. E papà gli rispose: “Cosa pensi, che per me sia bello restare qui? Lontano dai miei cari? Mi rassegno, vado a fare qualche passeggiata, mi bevo qualche birra, non è difficile solo per voi, anche per me non è bello stare sempre tutto solo”. Questa è anche la realtà di tanti altri che si trovarono a emigrare allora.
D. Quali sono state le più grandi difficoltà che ha incontrato in questo suo complesso lavoro di ricerca?
R. Quasi tutti questi 14 non erano sposati e, purtroppo, una delle condizioni della mia iniziativa – non so se per decisione delle autorità italiane o meno – era che dovessi essere io a ricercare i parenti dei minatori italiani per formare un gruppo che mi appoggiasse nella mia ricerca. Questa è stata la difficoltà principale. La mia richiesta, da sola, non era sufficiente.
D. La sua ricerca l’ha portata a stretto contatto con la realtà belga: dalla storia del Paese a quella di suo padre, fino ai rapporti che lei ha intrattenuto con le istituzioni. Sente un legame emotivo con il Belgio?
R. Prima questo legame non lo sentivo poiché andavo lì per un giorno o due. Adesso lo sento perché per quattro, cinque anni, è stato un contatto serrato e continuo. Ho sentito il calore da parte dei belgi che venivano alle celebrazioni, anche in risposta a ciò che i media comunicavano sul progresso della mia iniziativa. Ho visto il riconoscimento, ho visto una parte dell’umanità che, forse, fino al momento del disastro non c’era stata. Il museo è stato istituito grazie alla manifestazione dell’associazione dei minatori, dato che il sito era destinato a veder sorgere un ipermercato. È grazie all’iniziativa dell’associazione degli ex minatori che si è riusciti a tenere viva la memoria”. (aise)