I passi della ricerca

ROMA – focus/ aise – Una ricerca congiunta condotta dall’Università La Sapienza di Roma in collaborazione con I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, Mediterranea Cardiocentro di Napoli e Università LUM di Casamassima, ha messo in luce un'associazione significativa tra ipoalbuminemia (bassi livelli di albumina nel sangue) e un aumento del rischio di mortalità per malattie vascolari e cancro in individui anziani.
La ricerca, condotta sulla base dei dati raccolti dallo studio epidemiologico Molisani e pubblicata sulla rivista scientifica eClinical Medicine-Lancet, ha analizzato un vasto gruppo di persone (circa 18.000 soggetti, dei quali 3.299 di età pari o superiore ai 65 anni), dimostrando che livelli di albumina inferiori a 35 g/L sono collegati a un rischio maggiore di morte negli anziani. Questa relazione è stata osservata anche dopo aver escluso fattori come malattie renali o epatiche e stati infiammatori acuti, che possono influenzare i livelli di albumina.
“La possibilità di ottenere indicazioni predittive su malattie con alta incidenza e elevato rischio di morte – come quelle cardiovascolari o i tumori – attraverso un esame semplice e ampiamente disponibile, anche a basso costo, rappresenta una importante conquista per la medicina moderna”, commenta la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni. “Questo studio, che conferma e consolida l’eccellenza delle attività scientifica delle università e degli enti di ricerca italiani in campo medico, ha anche un importante valore sociale attribuibile alle possibili ricadute nell’ambito della prevenzione”.
“La nostra analisi – spiega Francesco Violi, Professore Emerito della Sapienza Università di Roma e ideatore dello studio – origina dal fatto che nel sangue l’albumina è una proteina che svolge attività antiossidante, antinfiammatoria e anticoagulante. La sua diminuzione, pertanto, accentua lo stato infiammatorio sistemico, facilitando l’iperattività delle cellule predisposte alla cancerogenesi o alla trombosi. È importante, in questo contesto, sottolineare che cancro e infarto cardiaco condividono una base comune proprio nella presenza di uno stato infiammatorio cronico, e che pazienti a rischio di malattie cardiovascolari, come i diabetici e gli obesi, sono anche a rischio di cancro”.
"I risultati del nostro studio – aggiunge Augusto Di Castelnuovo, epidemiologo della Mediterranea Cardiocentro e dell’I.R.C.C.S. Neuromed- mostrano che un livello basso di albumina, oltre a fornire indicazioni sullo stato nutrizionale e sulla salute del fegato, segnala anche una aumentata suscettibilità verso altre gravi patologie. L'ipoalbuminemia potrebbe riflettere quel processo infiammatorio cronico, tipico dell'invecchiamento, noto come ‘inflammaging’, che potrebbe aver contribuito al rischio elevato di mortalità che abbiamo osservato".
Un dato interessante della ricerca è che l'ipoalbuminemia è correlata a un livello socioeconomico più basso. Questo solleva un'importante questione sociale, poiché per motivi economici, gli anziani optano spesso per una dieta meno salutare, scegliendo alimenti con proteine meno nobili.
“Oltre a fornirci lo spunto per approfondire con ulteriori ricerche il rapporto tra albumina nel sangue e salute – commenta Licia Iacoviello, direttore del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’I.R.C.C.S. Neuromed e Professore Ordinario di Igiene dell’Università LUM - questo studio può avere implicazioni dirette sulla pratica clinica e sulla prevenzione. La misura dell’albumina nel sangue è infatti un test semplice e poco costoso. È quindi da considerare un’analisi di primo livello, che permetterebbe di porre una maggiore attenzione clinico-diagnostica verso gli individui anziani potenzialmente a rischio. Il nostro studio fornisce anche un valore di riferimento (35 g/L) che può guidare il medico nell’interpretazione della misura di albumina”.
Un team di ricerca dell'Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche di Sesto Fiorentino (Cnr-Ino) e dell’Università di Firenze (Laboratorio Europeo di Spettroscopia Non lineare e Dipartimento di Fisica), in collaborazione con studiosi e studiose dell’Università di Trieste nonché dell'Istituto Nazionale di Scienza e Tecnologia Ulsan in Corea del Sud e del Dipartimento di Fisica dell’Università dei Paesi Baschi ha realizzato un innovativo esperimento con un simulatore quantistico che ha permesso di fare luce su uno dei più affascinanti e complessi fenomeni della fisica: la cosiddetta instabilità di Kelvin-Helmholtz, un fenomeno fluidodinamico che gioca un ruolo fondamentale nell'insorgere della turbolenza.
L’esperimento, i cui risultati sono pubblicati sulla rivista Nature Physics, ha permesso di riprodurre le dinamiche di interazione tra due superfluidi di atomi ultrafreddi di litio (raffreddati cioè a temperature prossime allo zero assoluto, ovvero -273°C) grazie a un simulatore quantistico atomico, un dispositivo progettato per studiare e simulare fenomeni quantistici della materia in maniera estremamente controllata. Per la prima volta, è stato testato l’utilizzo di tali dispositivi per lo studio di fenomeni fluidodinamici in condizioni estreme, che risultano estremamente difficili da studiare attraverso convenzionali tecniche numeriche.
“Abbiamo preparato e messo in contatto due anelli superfluidi concentrici e contro-rotanti, una configurazione che in fluidi classici darebbe luogo all’instabilità di Kelvin-Helmholtz”, racconta Diego Hernandez Rajkov, associato al Cnr-Ino e dottorando del Laboratorio LENS dell’Università degli studi di Firenze. “Quindi, abbiamo osservato la formazione di un anello di vortici quantizzati che gradualmente perde stabilità, e frammentandosi dà origine a una dinamica complessa, in cui i vortici interagiscono e disturbano il flusso superfluido sottostante, influenzandosi a vicenda. Attraverso l'osservazione del moto dei vortici, siamo stati in grado di identificare le leggi di scala alla base di questo fenomeno, riscontrando una coerenza con le leggi dell'instabilità di Kelvin-Helmholtz”.
Il fenomeno noto in fisica come instabilità di Kelvin-Helmholtz deve il suo nome ai due studiosi Lord Kelvin e Hermann von Helmholtz, che alla fine del XIX secolo osservarono come fluidi di diversa densità e messi in moto relativo siano soggetti a perturbazioni di tipo ondoso alla loro interfaccia, che evolvono rapidamente in strutture vorticose di grandi dimensioni. Si tratta di un fenomeno e ampiamente diffuso, dall'atmosfera all'oceano alle nuvole – si pensi alle particolari formazioni nuvolose che assomigliano a grandi cavalloni, conosciute come “nuvole di Kelvin-Helmholtz”- e persino in contesti astrofisici, come nelle atmosfere stellari o nelle nebulose. E’ inoltre uno dei principali meccanismi attraverso il quale il moto di un fluido diventa turbolento, ovvero irregolare e caotico.
Francesco Marino, primo ricercatore del Cnr-Ino e coautore della ricerca, commenta: “Questi risultati stabiliscono una connessione diretta tra fluidi classici e quantistici, suggerendo un'interpretazione possibile della dinamica dei vortici quantizzati come manifestazione dell'instabilità del fluido sottostante. Allo stesso tempo, offrono una visione dell'instabilità classica come fenomeno emergente, originato dal moto collettivo dei vortici che agiscono sia come sorgenti che come rivelatori di questa dinamica”.
“Il nostro lavoro conferma le enormi potenzialità della simulazione quantistica con atomi ultrafreddi, in linea con la visione di Richard Feynman, anche per lo studio di fenomeni fluidodinamici quantistici e potrebbe portare a nuove scoperte e applicazioni in campi come la fisica dei fluidi, la meteorologia, la geofisica e la biologia”, conclude Giacomo Roati, dirigente di ricerca del Cnr-Ino e coordinatore del team sperimentale. (focus\ aise)