I progressi della ricerca italiana

ROMA – focus/ aise – La leucemia megacarioblastica acuta (Amkl) è una forma rara e aggressiva di leucemia mieloide acuta che colpisce i megacariociti, le cellule che producono le piastrine. Si manifesta più comunemente nella fascia di età pediatrica, di solito sotto i cinque anni, in particolare in soggetti con sindrome di Down. In Italia colpisce circa sei-sette persone all'anno.
Ad oggi le terapie principali consistono nella chemioterapia e nel trapianto di cellule staminali. Ma non sempre chi riceve questi trattamenti risponde alle cure. Tra i motivi, c’è la scarsa conoscenza del meccanismo di azione della patologia.
Uno strumento in più per affrontare la malattia potrebbe arrivare da uno studio condotto dall’Università di Yale insieme all’Università di Trento. Nel gruppo di ricerca internazionale c’è Toma Tebaldi, professore di Biologia molecolare al Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell’Università di Trento che è tra i co-corresponding author dell’articolo scientifico.
Il lavoro è frutto della collaborazione tra il laboratorio di RNA and Disease Data Science guidato dal docente, il policlinico di Milano con Giulia Biancon, e i laboratori della Yale University, con Madeline Mayday e Manyi Wei e con a capo Diane Krause e Stephanie Halene. Hanno partecipato anche Irene Moratti e Christian Ramirez, entrambi del team di Tebaldi.
Gli autori e le autrici, dopo aver analizzato molteplici dati di sequenziamento dell’RNA, hanno identificato il meccanismo alla base della relazione tra lo sviluppo della malattia e una specifica alterazione genetica che si verifica principalmente durante l’infanzia e che provoca la formazione di una proteina mutante. Si tratta in pratica di due geni che normalmente nel genoma sono separati e che invece vanno a formare una proteina unica (RBM15-MKL1) attraverso un processo di fusione. Fusione che provoca il tumore.
Hanno quindi ipotizzato che la proteina mutante alteri un processo (chiamato modifica m6A), che serve ad indirizzare il comportamento di particolari RNA responsabili della trasmissione di informazioni genetiche dal DNA. Hanno infine scoperto che la proteina mutante può legare e modificare l'RNA, dirottando i normali processi di m6A e cambiando il modo in cui l'RNA si comporta normalmente, attivando in particolare in una via di segnalazione critica per i tumori, chiamata WNT.
Dal punto di vista clinico, lo studio rivela il meccanismo di insorgenza di questo tipo di leucemia e rappresenta un passo avanti nella comprensione della malattia. Dal punto di vista della biologia molecolare, aggiunge di un tassello importante per capire l’impatto delle alterazioni dell'RNA sulle malattie umane.
Quali le prospettive che si aprono?
“Adesso che sappiamo che la proteina mutante agisce sull'RNA e sulle sue modifiche, l’obiettivo è provare a usare terapie innovative e farmaci mirati, già in fase di sviluppo, che vadano a colpire le alterazioni dell’RNA per correggerle”, risponde Toma Tebaldi.
Parlando di RNA, negli ultimi mesi sono stati annunciati tagli alla ricerca negli Usa, uno dei paesi leader in questo ambito. Qualche preoccupazione non manca. “Gli strumenti di collaborazione con gli enti statunitensi stanno cambiando, e bisognerà trovare nuove soluzioni per accedere a fondi comuni”, ammette Tebaldi.
Lo studio dal titolo “RBM15-MKL1 fusion protein promotes leukemia via m6A methylation and WNT pathway activation” è pubblicato su Blood e ha ottenuto la copertina della versione cartacea dell’ultimo numero della rivista appena pubblicato.
È stato supportato finanziariamente anche da Airc, oltre che con fondi ministeriali del Pnrr.
L'intervallo tra la prima dose di vaccino (primer) e quella di richiamo (booster) è un fattore determinante nel contenimento di un’epidemia. In contesti di risorse limitate, la scelta della tempistica può influenzare in modo decisivo l’evoluzione del contagio. È quanto emerge da uno studio condotto dal Consiglio nazionale delle ricerche con l’Istituto dei sistemi complessi (Cnr-Isc) e l’Istituto per le applicazioni del calcolo (Cnr-Iac), che ha utilizzato un approccio matematico per analizzare diversi scenari di distribuzione delle dosi e valutare l’impatto delle diverse strategie a livello di popolazione.
Lo studio è pubblicato sulla rivista Physical Review Research. “I risultati mostrano che, quando le risorse sono scarse e i tempi di attesa per le dosi sono lunghi, l'approccio più efficace è dare priorità assoluta alla prima dose, così da aumentare rapidamente la copertura vaccinale iniziale”, afferma Francesca Colaiori, ricercatrice del Cnr-Isc. “Al contrario, in presenza di un tasso di vaccinazione più elevato e di una maggiore disponibilità di dosi, è vantaggioso cominciare a somministrare anche seconde dosi mentre ancora una parte della popolazione è in attesa della prima, con una priorità relativa che dipende dalle risorse disponibili”. Lo studio identifica anche il punto in cui al variare delle risorse disponibili c'è la transizione tra i due regimi ottimali e diventa vantaggioso somministrare parallelamente le seconde dosi. “Una corretta strategia ha l'effetto di spostare la soglia epidemica e dunque in alcune circostanze può perfino sopprimere del tutto epidemie che, con una pianificazione sub-ottimale, sarebbero invece esplose”, aggiunge Colaiori.
Dallo studio emerge che, in caso di risorse limitate, l'intervallo ottimale per l'immunità del singolo individuo potrebbe non coincidere con quello più vantaggioso a livello di popolazione. “Durante l’epidemia di Covid-19, molti Paesi si sono trovati a dover decidere come allocare scorte limitate di vaccini”, spiega Colaiori. “Alcuni paesi hanno scelto di prolungare l'intervallo tra le dosi, dando priorità alla somministrazione della prima dose al maggior numero possibile di individui idonei, seguendo le raccomandazioni del Joint Committee on Vaccination and Immunisation (JCVI). Il JCVI riteneva infatti che ridurre al minimo la popolazione ‘vaccino-naïve’ (cioè, priva di immunità vaccinale) avrebbe ridotto significativamente il rischio di malattie gravi e ricoveri ospedalieri a breve termine. Altri paesi, invece, si sono attenuti alle indicazioni iniziali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), che raccomandava un intervallo più breve tra le dosi”.
Un team di ricercatori dello Scripps Research Translational Institute, tra i quali anche degli alumni dell'Università di Padova, ha sviluppato un modello di intelligenza artificiale che può rilevare precocemente il rischio di diabete analizzando i picchi glicemici tramite sensori indossabili. Tradizionalmente, il diabete e il prediabete sono diagnosticati tramite il test HbA1c, che misura i livelli medi di glucosio nel sangue negli ultimi mesi. Tuttavia, questo test non prevede chi è a rischio di sviluppare il diabete.
Mattia Carletti, il primo autore, Matteo Gadaleta, responsabile del processamento dei dati, e Giorgio Quer, co-autore senior e corrispondente, hanno portato avanti lo studio presso Scripps Research. Riccardo Miotto lavora presso Tempus AI, lo sponsor dello studio, e ha gestito la collaborazione. Tutti e quattro vengono dall'Università di Padova, dove hanno completato il dottorato presso il dipartimento di Ingegneria dell'Informazione. In questo studio hanno scoperto che l'intelligenza artificiale può utilizzare una combinazione di altri dati — inclusi i livelli di glucosio in tempo reale monitorati da dispositivi indossabili — per offrire una visione più precisa del rischio di diabete.
Il nuovo modello utilizza dati provenienti da monitor glicemici continui (CGM), informazioni sul microbioma intestinale, la dieta, l'attività fisica e la genetica, offrendo una visione più dettagliata del rischio di diabete.
“Abbiamo dimostrato che due persone con lo stesso valore di HbA1c possono avere profili di rischio sottostanti molto diversi”, afferma Giorgio Quer, direttore di Intelligenza artificiale e docente di Medicina Digitale presso Scripps Research. “Analizzando più dati, ovvero quanto tempo impiegano i picchi glicemici a rientrare, cosa succede al glucosio durante la notte, qual è l'apporto alimentare e persino cosa accade nell'intestino, possiamo iniziare a distinguere chi è su una traiettoria rapida verso il diabete e chi no”.
Utilizzando queste informazioni, i ricercatori hanno addestrato un modello di intelligenza artificiale per distinguere tra persone con diabete di tipo 2 e individui sani. Uno dei segnali più chiari di rischio di diabete individuati è stato il tempo necessario affinché un picco glicemico rientri ai valori normali. Nelle persone con diabete di tipo 2, spesso servivano 100 minuti o più affinché la glicemia si abbassasse dopo un picco, mentre negli individui sani tornava ai valori di base molto più rapidamente. Lo studio ha anche scoperto che un microbioma intestinale più diversificato e un livello di attività fisica più elevato erano associati a un migliore controllo glicemico, mentre una frequenza cardiaca a riposo più alta era legata al diabete.
Lo studio, pubblicato su “Nature Medicine”, ha coinvolto oltre 1.000 partecipanti negli Stati Uniti tramite un trial clinico remoto, dove i partecipanti hanno utilizzato dispositivi CGM, registrato i pasti, monitorato l'attività fisica e inviato campioni biologici per le analisi. I risultati mostrano che un microbioma intestinale diversificato e un livello di attività fisica elevato sono associati a un migliore controllo glicemico.
Il modello di IA ha dimostrato di poter rilevare il rischio di diabete in individui prediabetici, aiutando i medici a personalizzare i trattamenti.
“In definitiva, si tratta di dare alle persone maggiore consapevolezza e controllo”, afferma Quer. “Il diabete non compare all’improvviso, si sviluppa lentamente, e ora abbiamo gli strumenti per rilevarlo prima e intervenire in modo più intelligente”. (focus\aise)