ItaloAmericano.org/ Carlo Rambaldi: a una stella sulla Walk of Fame per l’umo che ha dato un’anima alle sue creature – di Silvia Nittoli

SAN FRANCISCO\ aise\ - “Quando pensiamo agli effetti speciali al giorno d’oggi, spesso immaginiamo algoritmi e modellazioni digitali. Ma c’è stato un tempo in cui la magia del cinema nasceva dalle mani di artigiani capaci di trasformare gomma, metallo e cavi in emozione. Carlo Rambaldi è stato il più poetico tra questi artigiani: un inventore di meraviglie, capace di dare espressione, respiro e perfino malinconia a personaggi e a creature che lui considerava più di semplici artefatti. Mentre contemporanei come Rick Baker e Stan Winston spingevano i confini dell’animatronica e del trucco, Rambaldi si ritagliava uno spazio unico trattando le creature cinematografiche come personaggi dotati di profondità psicologica e peso narrativo”. Ad intervistare la figlia Daniela è stata Silvia Nittoli per l’ItaloAmericano.org.
“Formato sia in belle arti che in ingegneria meccanica, Rambaldi univa sensibilità estetica e ingegno strutturale, un raro binomio che lo rendeva l’artista di riferimento quando gli studi cinematografici necessitavano di qualcosa di mai visto prima. Il suo lavoro univa attivamente due mondi: le tradizioni artigianali dell’Italia del dopoguerra e le produzioni su larga scala, basate sugli effetti speciali, del cinema americano. In questo modo, divenne uno dei pochi italiani a plasmare il linguaggio dei blockbuster hollywoodiani da dietro le quinte.
La stella postuma sulla Hollywood Walk of Fame del 2026, annunciata nel suo centenario, sottolinea l’impatto duraturo del suo lavoro. Si tratta di un riconoscimento tipicamente riservato ad artisti di gran fama, il che rende il suo tributo a un artista di effetti speciali ancora più significativo. L’influenza di Rambaldi è ancora visibile nel rinnovato interesse dei registi per gli effetti pratici rispetto alla CGI, una tendenza radicata nel tipo di lavoro tattile ed emotivamente potente di cui era pioniere, caratterizzato da creature che erano allo stesso tempo sorprendenti e con cui era facile empatizzare.
Tre volte premio Oscar, amatissimo da registi come Spielberg, Ridley Scott e David Lynch, Rambaldi ha firmato alcuni dei volti più iconici del cinema moderno – su tutti, l’alieno di E.T., l’essere biomeccanico di Alien e il gigantesco King Kong del remake del 1976, che segnò il suo esordio a Hollywood. Fu proprio il produttore Dino De Laurentiis a volerlo negli Stati Uniti per quella sfida: un progetto monumentale che aprì a Rambaldi una carriera internazionale.
Nato a Vigarano Mainarda, un piccolo paese dell’Emilia, Rambaldi ha vissuto a lungo tra Los Angeles e l’Italia, dal 1975 fino al 2003 quando a fine carriera ha raggiunto la sua terzogenita, Daniela Rambaldi, in Calabria, a Lamezia Terme, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Quest’anno, nel centenario della sua nascita, è arrivato, come abbiamo detto, un tributo simbolico ma profondamente significativo: una stella postuma sulla Hollywood Walk of Fame, accanto ai più grandi nomi della storia del cinema.
Noi de L’Italo Americano abbiamo avuto il piacere di parlare con sua figlia Daniela, che oggi guida la fondazione dedicata al padre, e con la quale, tra memoria personale e visione artistica, abbiamo ripercorso le tappe del “Geppetto del cinema”, come lo chiamava il regista Steven Spielberg.
D. Com’è stato crescere con un padre come Carlo Rambaldi?
R. Non è stato un padre tradizionale. Non veniva a scuola, alle recite o ai compleanni. Ma tra me e lui c’era una grande simbiosi. Ero la terza figlia, nata dopo dodici anni dai miei fratelli, quindi ero la “cocca di casa”. Vivevamo in un ambiente molto creativo: lo vedevo sempre con penna o matita in mano. Non giocava a carte o a tennis, non aveva hobby convenzionali. Anche in vacanza, come a Cabo San Lucas, si portava colori e fogli. Ed erano proprio quei momenti in cui riuscivamo a connetterci: parlavamo dei miei sogni, delle mie ambizioni. Crescendo, ho iniziato ad innamorarmi di questo suo lato così particolare.
D. Aveva un laboratorio anche a casa?
R. Il laboratorio vero e proprio era fuori casa, dove costruiva i personaggi per i film. Ma a casa avevamo un grande tavolo sotto il patio, e lì, soprattutto la sera, disegnava. In California negli anni ’80 il clima era mite tutto l’anno, quindi quello spazio all’aperto diventava un’estensione naturale del suo mondo.
D. Ha mai osservato il suo processo creativo da vicino?
R. Sì, tante volte. Partiva dalla sceneggiatura, studiava cosa doveva fare il personaggio – se era protagonista o meno, che tipo di movimenti doveva compiere. Poi iniziava con schizzi simili tra loro ma con piccole varianti. Se il regista approvava, passava ai dettagli facciali e ai meccanismi interni per dargli anima e movimento. Era incredibile vedere la creatura prendere vita sotto i nostri occhi. Si parlava di creature, non di artefatti, e diventavano parte del dialogo a casa la sera soprattutto con mia mamma. Le diceva “Ho avuto questa sfida oggi, non so come fare questo movimento, devo capire come farlo ridere”. La cosa che mi meravigliava era che parlava di queste creazioni come fossero vive. In casa si respirava una sorta di magia.
D. C’è una creatura a cui era particolarmente legato?
R. Tutti pensano subito a E.T., ma in realtà credo che King Kong fosse il suo vero amore professionale. Quel film gli cambiò la vita: lo portò dall’Italia agli Stati Uniti. Lì non creò solo un effetto, ma il protagonista stesso. Poi c’era Pinocchio, che amava visceralmente. Purtroppo, per lo sceneggiato Rai di Comencini gli fu sottratta la sua creatura originale. La produzione glielo chiese in prestito, poi lo copiò, usandolo senza riconoscergliene la paternità. Fece causa e vinse, ma gli rimase il dente avvelenato. Tanto che l’ultima sua opera pubblicata postuma è una raccolta di 96 tavole dedicate a Pinocchio.
D. Che rapporto aveva con la fama e Hollywood?
R. Era molto riservato. Non amava i riflettori né i party. Mia madre, più espansiva, spesso lo sollecitava: “Carlo, cambiati, dobbiamo andare”. E lui sbuffava. Per lui Hollywood era il suo laboratorio, nulla di più. Era lì che si sentiva a casa. E i rapporti con i registi? Molti rapporti di lavoro diventavano amicizie. Abbiamo avuto tanti ospiti illustri: Jack Lemmon, Jane Fonda, Oliver Stone, John Travolta, Sofia Loren, Carlo Ponti. Ricordo in particolare una festa organizzata da mia madre per Oliver Stone: era anche il suo compleanno. A un certo punto, le luci si abbassarono e dal corridoio arrivò la mano meccanica del film La Mano, con una candela accesa tra le dita, mentre tutti cantavamo “Happy Birthday”.
D. La passione per la meccanica era qualcosa che aveva fin da piccolo?
R. Sì, già da bambino cercava di dare movimento agli oggetti. Suo padre aveva una bottega di riparazioni, e lui rimaneva incantato dal meccanismo della catena della bici. Quando pioveva, andava sugli argini del Po a cercare argilla con cui modellare. Lo faceva di nascosto: mia nonna, che voleva diventasse geometra, gli aveva tolto i colori per dissuaderlo dalla carriera artistica. All’epoca oltretutto dopo la guerra non c’era molto con cui giocare soprattutto in una piccola provincia dell’Emilia Romagna quindi lui per poter creare qualcosa andava agli argini del fiume Po e dopo che aveva piovuto scavava perché sotto la terra bagnata riusciva a trovare dell’argilla. La portava a casa e la conservava in un sacchetto e da lì ha iniziato a fare le piccole modellazioni. E questo gliel’aveva insegnato un signore che aveva capito il suo talento.
D. Che idea aveva del digitale e cosa penserebbe oggi dell’intelligenza artificiale?
R. Lo vedeva come uno strumento utile, ma non creativo. Diceva: “Se avessi fatto E.T. in digitale, ci sarebbero voluti cinque tecnici diversi. A chi sarebbe andato l’Oscar?”. Per lui l’integrità dell’artista stava nel seguire ogni fase della creazione, dall’idea al gesto finale. E con l’intelligenza artificiale avrebbe pensato lo stesso: è utile solo se serve a potenziare l’uomo, non a sostituirlo.
D. Come si è arrivati alla stella sulla Walk of Fame?
R. La candidatura l’abbiamo promossa noi, con il supporto del Ministero della Cultura e di Cinecittà. Ci siamo chiesti: cosa si può regalare a un artista che ha già ricevuto tutto? La stella ci sembrava il riconoscimento più simbolico. L’avevamo chiesta per il 2024, ma quell’anno è stata assegnata a Prince – c’è solo una stella postuma per anno. Avevamo quasi perso la speranza. Poi, lunedì scorso, durante l’annuncio in diretta, abbiamo sentito il suo nome: “Carlo Rambaldi, the Italian wizard of special effects”. Un’emozione fortissima. C’è anche un filo simbolico molto bello… Lui è morto il 10 agosto, la notte di San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti. Ricevere la stella proprio nel suo centenario, in quella data, ci ha dato l’idea di un cerchio che si chiude. Come se la sua creatività avesse trovato una nuova forma per brillare, anche da lassù”. (aise)