I passi della ricerca (2)

ROMA – focus/ aise – A 25 anni dalla firma della prima convenzione CNR – Istituto Nazionale di Ottica e Opificio delle Pietre Dure di Firenze (Ministero della Cultura) rinnovano l’accordo di collaborazione siglato nel 1998 prefissandosi un obiettivo decisamente ambizioso ma realistico: creare, insieme, un laboratorio integrato di indagini chimico-fisiche dotato di strumentazioni uniche e innovative per la creazione di nuove conoscenze per la conservazione e il restauro delle opere d’arte. La qualità delle due Istituzioni coinvolte, e la loro lunga esperienza di collaborazione, sono una garanzia per costruire, anche con altri enti di ricerca, un riferimento a livello internazionale per il settore.
Nel 1998 la convenzione tra CNR-INO e OPD ha dato vita al primo laboratorio scientifico di ricerca in Europa, frutto di una diretta collaborazione tra il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero dell'Università e della Ricerca. Da allora, professionisti della conservazione dei beni culturali e scienziati hanno unito le proprie competenze per creare soluzioni innovative per il restauro. Oggi, 30 aprile 2024, i due istituti rinnovano questo impegno firmando una nuova convenzione con obiettivi ancora più ambiziosi.
Il 12 novembre 2023 l’Istituto Nazionale di Ottica del CNR (CNR-INO) e l’Opificio delle Pietre Dure (OPD) hanno celebrato i 25 anni dalla firma della prima convenzione stipulata per integrare risorse e competenze e fare ricerca insieme per la salvaguardia del patrimonio culturale.
La convenzione del 1998 ha dato vita al primo e unico laboratorio scientifico di ricerca in Europa frutto della collaborazione diretta tra il Ministero dei Beni Culturali ed il Ministero dell’Università e della Ricerca. Da allora, restauratori, storici dell’arte, archeologi e ricercatori, uniti dalla passione per la scienza dei beni culturali, hanno lavorato insieme in maniera sistematica e interdisciplinare per prendersi cura del patrimonio italiano.
A partire dagli anni ’90 il CNR-INO e l’OPD hanno sviluppato insieme prototipi di strumentazione ottica per la diagnostica, creando soluzioni innovative e non invasive per la conoscenza delle opere d’arte che l’OPD aveva in cura: dalla realizzazione del primo scanner basato su una singola banda nell’infrarosso (IR, fino a 1.7 mm) fino allo sviluppo dell’attuale scanner per riflettografia multispettrale in 32 bande (dal visibile all’IR). Grazie alla ricerca e all’innovazione, il team interdisciplinare CNR-INO / OPD ha sviluppato, testato e perfezionato in perfetta sinergia di intenti strumenti e competenze necessarie per scoprire, analizzare e interpretare anche ciò che l’occhio umano non può vedere nell’opera d’arte: i disegni preparatori, i pentimenti, il processo creativo dell’artista, avendo a disposizione immagini, modelli tridimensionali, dati spettrali ed altri dati misurati sulle opere al fine di conoscerne i segreti materici e compositivi.
Negli archivi e nelle banche dati dei due istituti si conservano oggi gli straordinari risultati di questa collaborazione: report, fotografie, filmati, immagini, mappe e modelli relativi ad indagini, interventi di conservazione e restauro eseguiti su capolavori, tanto per citarne alcuni, di Raffaello (“Madonna del cardellino”, Uffizi 2008), Piero Della Francesca (“Resurrezione di Cristo”, Sansepolcro 2009-2011), Caravaggio (Cena in Emmaus, Brera 2010), Leonardo da Vinci (“Adorazione dei Magi”, Uffizi 2011-2012) e di altri grandi artisti moderni e contemporanei.
I risultati di questi interventi non solo hanno consentito una migliore comprensione delle opere ed una pianificazione mirata degli interventi di restauro, ma hanno anche aperto la porta ad importanti collaborazioni in ambito internazionale: il modello CNR-INO / OPD è divenuto il prototipo che ha ispirato la creazione di E-RIHS, l’infrastruttura di ricerca europea per le scienze del patrimonio, che grazie a queste basi avrà la sua sede a Firenze. Oggi CNR-INO e OPD mettono in campo nuovi e più ambiziosi progetti a cui stanno già dando forma: utilizzare l’esperienza acquisita in 25 anni di collaborazione e su di questa porre le basi per creare, anche attraverso ulteriori collaborazioni con enti ed istituzioni di prestigio, un laboratorio integrato di indagini chimiche e fisiche (ottiche e nucleari) dotato di strumentazioni uniche per guidare lo studio e gli interventi di restauro sul patrimonio.
“La forza di questa collaborazione che si rinnova”, ha affermato Emanuela Daffra, soprintendente ad interim OPD, “sta nel fondarsi su competenze molto specialistiche che si confrontano su necessità e quesiti che nascono dalla attività quotidiana su classi molto diverse di beni culturali. Questo essere ancorati all’operatività, e un’operatività di livello altissimo, ha garantito una straordinaria concretezza, che si intende portare avanti, come tratto distintivo”.
“L’applicazione delle più avanzate tecnologie ai Beni Culturali è la più chiara testimonianza di come lavorare a conservazione e restauro non ci chiuda nel passato ma ci possa proiettare nel futuro”, ha dichiarato dal canto suo Francesco Saverio Cataliotti, direttore del CNR-INO, dicendosi “fiero di poter continuare ad unire le eccellenze fiorentine in questa avventura”.
I neuroni sono importanti, ma non sono tutto. Nella capacità del cervello di acquisire e di memorizzare informazioni, infatti, ha un ruolo determinante la sua “cartilagine”, formata da agglomerati di molecole chiamate condroitin solfati, localizzati nella matrice extracellulare al di fuori delle cellule nervose. A descrivere un nuovo meccanismo di plasticità cerebrale, ovvero il modo in cui le connessioni nervose si modificano in risposta agli stimoli esterni, è lo studio appena pubblicato sulla rivista internazionale Cell Reports. Il lavoro nasce dalla collaborazione tra l’Università di Trento, di Harvard e di Magdeburgo.
"Le abilità sensoriali e la capacità di comprendere l’ambiente che ci circonda dipendono dall’attività del cervello, che ci permette di percepire ed elaborare gli stimoli che provengono dal mondo esterno. Attraverso il nostro cervello siamo in grado di acquisire e memorizzare nuove informazioni, e di ricordare quelle già acquisite. Questo fenomeno affascinante è reso possibile dalla capacità del cervello di modificare continuamente la struttura e l’efficacia delle connessioni neuronali (sinapsi) in risposta agli stimoli esterni. Capacità che prende il nome di plasticità sinaptica. Capire come avvengono le modificazioni sinaptiche e come esse contribuiscano all’apprendimento e alla memoria è una delle grandi sfide delle neuroscienze", commentano Yuri Bozzi, professore dell’Università di Trento e co-senior author, e Gabriele Chelini, primo autore. Chelini, che aveva iniziato a seguire questo progetto nel 2017, quando lavorava nel laboratorio di Sabina Berretta (McLean Hospital e Harvard Medical School, Boston), ha concluso la realizzazione della pubblicazione scientifica durante gli anni di attività come postdoc nel laboratorio di Bozzi all’Università di Trento.
I risultati ottenuti hanno una chiara rilevanza clinica. "Sapendo da studi precedenti che questi agglomerati sono ridotti in persone con diagnosi psichiatriche, possiamo dire di aver fatto un piccolo passo nella comprensione di questi disturbi. Possiamo inoltre ipotizzare che in alcune condizioni venga meno l’organizzazione spaziale delle connessioni tra neuroni e immaginare approcci terapeutici che ristabiliscano armonia nella connettività cerebrale" affermano gli studiosi.
Il metodo di lavoro
Al centro della ricerca ci sono i condroitin solfati, molecole ben note per il loro ruolo nelle articolazioni, ma che svolgono anche una funzione cruciale nella plasticità cerebrale, essendo parte integrande della matrice extracellulare del cervello. Nel 2007, uno studio giapponese aveva descritto la presenza di agglomerati di condroitin solfati, di forma circolare, sparsi in maniera apparentemente casuale nel cervello. Questo lavoro era però scivolato nel dimenticatoio, finché il laboratorio di neuroscienze traslazionali di Sabina Berretta non ha riportato all’attenzione della comunità scientifica queste strutture, ribattezzandole col nome di agglomerati CS-6 (da condroitin solfato-6, che ne identifica la precisa composizione molecolare) e dimostrando come tali strutture fossero gravemente ridotte nel cervello di persone con disturbi psicotici. Nel 2017 quindi, Gabriele Chelini, neo-assunto nel laboratorio di Berretta, è stato incaricato di rivelare la funzione di questi agglomerati.
"Dapprima siamo andati ad esplorare in dettaglio queste strutture, visualizzandole ad altissima risoluzione. Abbiamo scoperto che non sono altro che gruppi di sinapsi ricoperte di CS-6 e organizzati in una forma geometrica ben riconoscibile. Abbiamo quindi evidenziato una nuova tipologia di organizzazione sinaptica" raccontano gli studiosi.
"A questo punto abbiamo dovuto usare un po’ di “creatività sperimentale”; con una combinazione di approcci comportamentali, molecolari e un raffinato studio di morfologico abbiamo capito che queste connessioni racchiuse negli agglomerati CS-6 si modificano in risposta all’attività elettrica del cervello".
"Infine, grazie alla collaborazione con l’Università di Magdeburgo e il laboratorio di Alexander. Dityatev, abbiamo parzialmente eliminato CS-6 nell’ippocampo (la regione del cervello responsabile dell’apprendimento spaziale), dimostrando che la presenza di CS-6 è necessaria per la memoria spaziale" sottolineano Bozzi e Chelini.
Lo studio offre, quindi, un contributo di rilievo. "Questo lavoro apre la strada a un nuovo modo di concepire il funzionamento del cervello. È possibile che tutte le sinapsi contenute negli agglomerati CS-6 abbiano la capacità di rispondere in maniera corale a specifici stimoli ambientali, e siano implicate in una funzione comune finalizzata ai processi di apprendimento e memoria" osservano.
Lo studio
Il lavoro è il frutto della collaborazione tra diversi laboratori, tra cui il laboratorio di neuroscienze traslazionali (Sabina Berretta; McLean Hospital – Harvard Medical School, Boston), il laboratorio di ricerca sui disturbi del neurosviluppo (Yuri Bozzi; CIMeC - Centro Interdipartimentale Mente/Cervello, Università di Trento) e il laboratorio di neuroplasticità molecolare (Alexander Dityatev; Otto von Guericke University, Magdeburgo).
Gabriele Chelini, primo autore dell’articolo, oggi ricercatore all’Istituto di Neuroscienze del Cnr di Pisa, è stato postdoc del laboratorio di Bozzi fino a due mesi fa. Chelini aveva iniziato a seguire questo progetto nel 2017, quando lavorava nel laboratorio di Berretta a Boston, e ha concluso la realizzazione della pubblicazione scientifica durante gli anni di attività all’Università di Trento.
L’articolo, dal titolo "Focal clusters of peri-synaptic matrix contribute to activity-dependent plasticity and memory in mice", è firmato da Gabriele Chelini, Hadi Mirzapourdelavar, Peter Durning, David Baidoe-Ansah, Sinead O’Donovan, Torsten Klengel, Luigi Balasco, Cristina Berciu, Anne Boyer-Boiteau, Robert McCullumsmith, Kerry J. Ressler, Yuri Bozzi, Alexander Dityatev e Sabina Berretta. Appena pubblicato online su Cell Reports (https://doi.org/10.1016/j.celrep.2024.114112), uscirà poi anche in versione cartacea sul volume 43, n° 5 (sezione Neuroscience) della rivista. (focus\ aise)