L'ambiente al primo posto

ROMA – focus/ aise – Un nuovo studio dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) individua nei meccanismi focali inversi (ovvero un terremoto causato da compressione della crosta, in cui le rocce vengono spinte una contro l’altra) un segnale chiave per riconoscere in tempo quasi reale l’arresto della propagazione dei dicchi magmatici, uno degli aspetti più critici nella gestione delle emergenze eruttive dell’Etna. Durante le crisi eruttive dell’Etna, infatti, uno degli elementi decisivi per la gestione dell’emergenza è comprendere se e come il magma si stia propagando nel sottosuolo, soprattutto nei casi di intrusioni laterali potenzialmente pericolose.
Le intrusioni laterali di magma, che si propagano lungo fratture nella crosta alimentando possibili eruzioni di fianco a bassa quota, rappresentano infatti il principale fattore di rischio per i centri abitati e le infrastrutture che circondano il vulcano. In questi contesti, la domanda cruciale per la Protezione Civile è se la propagazione del dicco (ovvero un’intrusione di magma che si propaga lungo fratture della crosta, spesso in direzione laterale) sia destinata a fermarsi o possa proseguire verso quote più basse.
“Prevedere in tempo reale l’evoluzione di un’intrusione laterale è una delle sfide più complesse della vulcanologia operativa”, spiega Alessandro Bonaccorso dirigente di ricerca dell’Osservatorio Etneo dell’INGV. “In recenti studi abbiamo affrontato il problema analizzando il bilanciamento energetico tra l’energia associata all’apertura del dicco e quella rilasciata sotto forma di sismicità”.
Normalmente, la risalita del magma genera un campo di stress estensionale, associato a terremoti con meccanismi focali diretti. La comparsa di eventi con meccanismo focale inverso, tipici di un regime compressivo, è invece rara in questi contesti. “La presenza di meccanismi inversi indica che la spinta del magma incontra una resistenza crescente, tale da rallentare e potenzialmente arrestare la propagazione”, sottolinea Carla Musumeci ricercatrice dell’INGV.
L’analisi di diversi episodi storici dell’Etna – dalla crisi del 1989 all’eruzione del 2002, fino agli eventi del 2008 e del dicembre 2018 – mostra un quadro coerente: la parte terminale delle intrusioni laterali che non raggiungono la superficie è sistematicamente caratterizzata dalla comparsa di meccanismi focali inversi, assenti invece nelle fasi iniziali o nei casi di risalita verticale del magma.
Un esempio emblematico è rappresentato dall’eruzione del 2002, quando l’Osservatorio Etneo, durante una fase di forte preoccupazione per la possibile propagazione verso aree densamente abitate, interpretò la comparsa di questi segnali sismici come indicativa di un arresto imminente del dicco. Un’ipotesi allora considerata audace, ma successivamente confermata dai fatti.
Secondo lo studio, la comparsa dei meccanismi focali inversi è legata a un cambiamento del campo di stress nella parte terminale del dicco, probabilmente associato ai processi di raffreddamento e solidificazione del magma, che favoriscono condizioni compressive.
“Quello che emerge è un indicatore semplice ma estremamente efficace”, conclude Elisabetta Giampiccolo ricercatrice dell’INGV. “I meccanismi focali inversi non sono un’anomalia, ma un segnale chiave che consente di riconoscere il potenziale arresto di un dicco in near-real time, offrendo un supporto concreto alle decisioni operative durante le crisi eruttive”.
L’approccio proposto si basa esclusivamente su dati sismici, rendendolo rapidamente applicabile anche in contesti con reti di monitoraggio geodetico meno sviluppate. Un risultato che rafforza il ruolo della sismologia nella sorveglianza vulcanica e nella mitigazione del rischio, contribuendo in modo diretto alla sicurezza del territorio etneo.
Uno studio appena pubblicato dell’Università di Ferrara ha approfondito le caratteristiche genetiche della residua popolazione di orso bruno marsicano, confrontando il genoma di questa sottospecie unica con quello di popolazioni di orso bruno in Europa centrale e Nordamerica. Per il WWF Italia, i risultati evidenziano ancora una volta l’unicità della nostra sottospecie appenninica, che convive con l’uomo nell’Italia centrale da millenni.
Gli orsi bruni marsicani hanno mostrato una ridotta diversità genomica e un maggiore livello di consanguineità rispetto ad altre popolazioni di orso bruno, fattori che aumentano il rischio di estinzione per una popolazione selvatica sul medio-lungo termine. Lo studio ha rivelato, però, anche che la popolazione appenninica di orso, a differenza delle altre analizzate, possiede alcuni geni associati a una ridotta aggressività. Probabilmente la coesistenza con l’uomo nei millenni e la maggiore probabilità di sopravvivere e riprodursi degli individui particolarmente elusivi e non aggressivi hanno “selezionato” e “fissato” queste caratteristiche nell’orso bruno marsicano.
I risultati della ricerca supportano l’ipotesi che l’adattamento al contesto antropizzato abbia dunque promosso cambiamenti comportamentali in una popolazione piccola e isolata da lungo tempo. Questa selezione ha portato nel corso dei secoli ad una riduzione dei conflitti e ha contribuito a diminuire i conflitti e a migliorare la coesistenza con l’uomo, aumentando le probabilità di sopravvivenza fino ad oggi di questa sottospecie unica. L’orso bruno marsicano rappresenta una componente straordinaria del patrimonio naturale italiano, caratterizzato dunque da unicità genetica, ecologica e comportamentale maturata nel corso di millenni di isolamento nell’Appennino centrale.
“Studi come questo testimoniano la peculiarità evolutiva del nostro orso gentile e l’importanza di preservarne l’integrità biologica- afferma Marco Antonelli, zoologo ed esperto di grandi carnivori per il WWF Italia-. Questa sottospecie è oggi classificata come a rischio critico di estinzione, con una popolazione stimata in poco più di 50 individui, una bassa variabilità genetica dovuta all’isolamento e molteplici minacce antropiche che ne mettono a rischio la sopravvivenza”.
Investire nella conservazione dell’orso marsicano significa non solo proteggere un simbolo della biodiversità italiana, ma anche salvaguardare un pool genetico unico e un ruolo ecologico insostituibile negli ecosistemi dell’Appennino. Sono sempre più urgenti sforzi concreti per mitigare le minacce e permettere l’incremento numerico e l’espansione spaziale della popolazione anche in altre aree nell’Appennino centro-meridionale.
Il progetto Orso 2X50 del WWF
Questo Natale regalando l’adozione WWF di un orso bruno marsicano sul sito https://sostieni.wwf.it/adotta-orso-bruno/ si sosterrà il progetto Orso 2×50, che mira a raddoppiare l’areale della sottospecie di orso bruno marsicano e il numero di individui presenti entro il 2050. Il WWF Italia lavora da anni per creare una cintura di sicurezza intorno alle zone in cui vive l'orso, ripristinando sottopassi stradali abbandonati e impraticabili per gli animali, distribuendo nuove recinzioni a tutela degli allevamenti, installando dissuasori acustici e ottici che scoraggino gli orsi ad attraversare le strade più pericolose, favorendo la convivenza con le popolazioni locali. Ognuno può fare la sua piccola parte per salvare l’orso gentile dei nostri appennini. (focus\aise)